Il Dantedì rivela la nostra civiltà senza cultura

È asfissiante e deprimente la mancanza assoluta di cultura che stiamo subendo. Non dipende dall’emergenza pandemica, ma le radici sono da ricercarsi già negli anni Cinquanta, quando c’è stato il boom economico e ogni casa ha iniziato a riunirsi davanti alla televisione. Il 25 marzo 2021 si celebrava il 7mo centenario dalla morte di Dante Alighieri. Da sognatrice che sono ho immaginato omaggi, approfondimenti e tante letture che avrebbero potuto ridare voce al Sommo Poeta. Ero certa sarebbe andata così. Io per lavoro mi dedico alla sua rilettura dalle ferie natalizie. Mi aveva illusa, in particolare l’eccellente approfondimento che gli aveva dedicato domenica 22 marzo RaiStoria, che mi ha sorpresa e illusa che la Rai tornasse a una programmazione di valore, complice anche l’avvio della trasmissione Via Dei Matti Numero 0 condotta da Stefano Bollani e Valentina Cenni, con ospiti sempre prestigiosi su raitre, subito dopo un’altra trasmissione cult, Blob, tutta entusiasta per aver visto queste due proposte di alto livello, finché ho passato il 25 marzo a carrellare sui canali della tv di Stato nella speranza di qualche chicca che non è mai arrivata, anzi una delusione dietro l’altra. Ho riposto tutta la mia fiducia su due programmi che seguo quotidianamente sin da quando andavo alle superiori: Quante storie e Passato e presente, in onda su rai3 all’ora di pranzo. Il primo ha bucato, il secondo ha approfondito la biografia del poeta. Poi basta, soltanto RaiStoria ha replicato la programmazione di domenica, che, tuttavia, mi ero andata già a rivedere su RaiPlay.
Ma l’orrore mi è venuto quando ho letto che Roberto Benigni al Quirinale avrebbe letto il XXV canto del Paradiso in occasione del Dantedì. Noooooooooooooooo, basta: già fatto! Almeno la presidenza della Repubblica potrebbe ingegnarsi meglio per onorare il poeta che ha svolto un ruolo fondante e fondamentale nella letteratura italiana. A fine serata, ho pensato che la pandemia la meritiamo, dovremmo estinguerci se non siamo in grado di distinguerci dalle altre specie viventi.

D’altronde dell’abbrutimento della nostra civiltà se n’era già accorto in tempi non sospetti Pierpaolo Pasolini che aveva scritto sul Corriere della Sera:

“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari – umiliati – cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di “studente”. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” – che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

(Pierpaolo Pasolini, “Corriere della Sera”, 9 dicembre 1973)

 

 

 

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