È stata la mano di Dio, no, di Sorrentino
Se tutti ne parlano, è una cagata pazzesca. Ancora di più se tutti ne parlano bene. Non lo penso per un senso di superiorità, che pure mi appartiene, ma per valore statistico: ogni volta che il grande pubblico esalta un prodotto, questo mi delude del tutto. Viceversa, se tutti ne parlano male, sicuramente è un capolavoro incompreso che io cerco di comprendere.
Questo è stato il mio primo pensiero quando ho letto recensioni su recensioni di È stata la mano di Dio, l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino. Finché una mattina Antonia mi ha detto che il film di Paolo Sorrentino è stato escluso dalle nomination agli Oscar, lamentandosi che gli americani ce l’hanno con noi italiani. Io le ho risposto che Sorrentino non è un bravo regista e che l‘oscar è un premio che viene dato alle americanate, ma lei non può saperlo perché non ha mai visto un film del regista che ha vinto un oscar per La grande bellezza, che a me ovviamente non è piaciuto per niente, trovandolo un manifesto del cinema di Sorrentino: troppo rivolto a dimostrare che lui da usare la macchina da presa e quindi scadendo sempre in virtuosismi nauseabondi e patetico autereferenzialismo. Tuttavia, pur di non cadere nella stessa supponenza di Antonia, ho deciso di vederlo. E dico subito che mi ci sono voluti tre giorni per riuscirci, non trovando la chiave per superare una noia insuperabile che travolge sin dalle prime scene che credo invece vogliano tradirci la comicità napoletana. L’errore consiste nel voler fare del “macchiettismo” della macchietta napoletana, con il tipico gusto di Sorrentino per una sovrabbondanza che non è ridicola, ma disgusta.
Chiede un regista al protagonista Fabietto, alter-ego di Sorrentino stesso: “È mai possibile che sta città non ti fa venire in mente niente da raccunta’?”, mi permetto di rispondere io con un secco no.
L’unica immagine che a me evoca tutta la tipicità di Napoli è quella che vede madre, padre e figlio su un unico motorino, prima immagine che mi ha accolto quando sono arrivata a Napoli, ma incredibilmente la madre che ho visto io allattava al seno un piccirillo, schiacciato tra lei e la schiena del padre. La famiglia di È stata la mano di Dio, invece, è tutta sorrisi e gioia. Poi la Napoli più autentica compare in certe fotografie della terra nera del Vesuvio e altri paesaggi mozzafiato del capoluogo campano. Altra Napoli non se ne vede, piuttosto nelle case aristocratiche, si notano allusioni mal riuscite a Luchino Visconti, ma pur guardando al più celebre esteta del nostro cinema, sbaglia usando per rilevare la decadenza dell’aristocrazia un lussuoso lampadario di vetri acceso in mezzo a un salone reale troppo didascalico, come nel palazzo de o’munaciello: possiamo arrivarci da soli che questa è la figura di un truffatore.
E ancora peggio è che tutta l’infanzia di Fabietto, ossia del regista, sembra ricalcata pari pari su quella di Federico Fellini raccontata in Amarcord: le caricaturali donne iniziatrici al sesso, le gite familiari in campagne, persino zia Patrizia, inizialmente presentata come oggetto del desiderio, alla fine diventa troppo allusiva lo zio Teo tutto matto di Amarcord. E se lei sul motoscafo, sta tutta nuda sotto gli sguardi sbigottiti di tutti i parenti, non varia molto dal meraviglioso zio Teo di Amarcord, il quale tira su di sé tutte le orecchie a sentire il suo desiderio: “Voglio una donna”. Così come la scena più felliniana di Fabietto in volo dentro galleria Umberto I è scopiazzata da 8½, quando Anselmi, lui sì riuscito alter ego di Fellini, intrappolato in un’auto in coda tra tante altre automobili, riesce a liberarsi dall’angoscia librandosi in volo. Mentre non ha senso il volo in È stata la mano di Dio.
Quel che più mi ha irritata è la totale incapacità a emozionare che deve essere il fine primo dell’arte.
Un’incapacità tale che ho pensato fosse contingente per caratterizzare il protagonista e che il film vertesse sull’apatia, ma non credo proprio che l’ego smisurato di Sorrentino possa ritenersi privo di suscitare toni accorati e struggenti. E di occasioni per provocare empatia ce ne sarebbero diverse: la comicità napoletana – già detto – è sprecata, la prima volta di Fabietto è squallida, l’agognato arrivo di Maradona al Napoli soltanto accennato, persino la morte dei genitori sembra una di quelle storie di vita reale usate per farsi compatire, ma neanche questo: solo anestesia. Buona notte.