Come risorge Cristo nelle arti?
L’iconografia del Cristo e del cristianesimo è sorta e risorta migliaia di volte in tutte le più disparate declinazioni artistiche. In pittura, con il filosofo e il buon pastore che si reincarnano in Cristo, si è rubata quella pagana, dominata in architettura sia dall’alto che dal basso. Sulla colonna traiana, il legittimo proprietario e protagonista delle gesta belliche è spodestato da san Pietro. Lì in cima a mostrare bene chi comanda. La residenza papale di Castel sant’Angelo?
Era la tomba dell’imperatore Adriano e della sua famiglia, ma non c’è rispetto nemmeno per i morti! Il tempio di tutti gli dei perse nel pronao la volta bronzea del paradiso loro costruito per colpa di papa Urbano VIII Barberini, come smascherò a Roma la statua parlante di Pasquino
Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini – Quello che non hanno fatto i barbari, lo hanno fatto i Barberini.
La mia prof di Latino e Greco diceva che, avendo inventato tutto i greci, ai successori non restava che copiarne le idee. Mithra, d’altronde, non era creatore fra cielo e terra, simbolo di luce, nato il 25 dicembre? Inutile precisarlo: da una Vergine… Solo che Mithra e il suo culto compiono gli anni nel II-I secolo AVANTI CRISTO. Insomma su chi è nato prima Mithra o Cristo non ci sono dubbi.
In epoca medievale, quella secondo alcuni composta dai cosiddetti “secoli bui”, Cristo si staglia su fondo d’oro, si incornicia in mandorla o si mette in braccio alla mamma. Ma senza sentimentalismi: la Madonna è la Theotókos, colei fatta di lettere dentali dure, generatrice di dio. Il bambino è rigido, quasi in un preveggente rigor mortis. Amen.
Nel passaggio dall’arte antica a quella moderna, la Crocifissione del Masaccio spegne ogni dubbio sul buio gettato sull’età di mezzo e si accende di una fiammante Maddalena rossa come il peccato. Un’opera che insinua il primo dubbio sull’esistenza di quel Cristo forse non così rifugiato nell’alto dei cieli. A farcelo scorgere appeso alla croce è Tommaso, detto Masaccio, appunto, il figlio di notaio che, racconta Giorgio Vasari
Non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da’ suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo.
Un poveraccio, insomma.
Poi sorge il Rinascimento e Cristo è scolpito a levare da Michelangelo in una Pietà triangolare che impietosisce, per il peso non del marmo, ma del dolore, sostenuto dalla Theotókos dolcissima. Mentre non si leva, ma resta imprigionato nel marmo in quella Rondanini. Un passaggio verso un non finito espressionista che è percorso in pittura dallo stesso Michelangelo e da Tiziano. Chi non ricorda il Cristo impietoso anche alle suppliche materne del Giudizio Universale dietro l’altare della cappella Sistina? È colui al centro della scena il vero Cristo o quel san Bartolomeo scuoiato della pelle, cui Michelangelo presta i suoi tratti ? E perché nessuno pensa a Michelangelo come l’autore degli affreschi della cappella Paolina? Di quel Cristo-Dio che con una scia di luce si fa largo tra gli angeli del Paradiso per scendere dai cieli a fulminare – ma per giusta causa di conversione – Saulo, cioè san Paolo. Che ha la faccia di papa Farnese, come testimonia la somiglianza dei tratti con un ritratto del papa eseguito negli stessi anni da Tiziano. La Pietà del maestro veneto dipinta poco prima di morire di peste a Venezia, oggi alle Gallerie dell’Accademia, rompe gli oli sulla tela, mostra il corso della pennellata, in colori lividi che odorano di morte.
Ci stiamo dilungando troppo, lo so, lo schermo fa male agli occhi, ma come si fa a non ricordare la Pietà di Rosso Fiorentino o i Cristo di quell’altro eccentrico di Pontormo? Negletti nel corso dei secoli loro a venire, ne recupera la memoria il Longhi nella critica d’arte, nel cinema Pier Paolo Pasolini che ci fa La ricotta, per esprimere come lui stesso dice:
Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.
E poi c’è lui, il Mantegna, quello che il Cristo lo riprende in uno scorcio che ha scritto la storia delle arti: Bramantino lo trasforma in ranocchio, Tintoretto in san Marco ritrovato, Pasolini in quell’altro poveraccio di Ettore, figlio di Mamma Roma, Elio Petri in un Salvo Randone con I giorni contati. La carrellata non ha fine, come il Cristo. Ma mancano le letture che hanno fatto di Gesù teatro e musica.
In teatro, Romeo Castellucci ha messo in scena la sua Pietà dolorosa e umanissima che indaga Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Nella musica contemporanea, Fabrizio De Andrè con la Buona novella ha iniziato con un Laudate dominum che alla fine si trasforma in Laudate hominem.
Non posso pensarti figlio di Dio
ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.
Perché a insinuare il sospetto di una presenza sovrumana anche nel più ateo degli atei, è proprio l’uomo, quello che ha saputo dipingere come Tiziano e gli Eccentrici, scolpire come Michelangelo (non per altro detto “il Divino”), dirigere come Pasolini, Petri o Giuseppe Verdi e Wolfgang Amadeus Mozart, un Dies irae che fa tremare miseri mortali chiamati a una resurrezione che li eternerà.
Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos excelsos – Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo.