Per il cinquecentenario della morte di Leonardo da Vinci, analisi dei capolavori pittorici

Leonardo da Vinci, Ultima cena, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie di Milano, © Daria Bressanelli

Il 2 maggio 1519 è morto Leonardo da Vinci, quindi quest’anno si celebra il cinquecentenario dalla sua morte. Sono passati 500 anni e le più grandi città che il maestro toscano ha toccato e fatto risplendere con le sue opere si preparano a omaggiarlo con palinsesti ricchi di eventi. Da critica e storica dell’arte ne sono molto contenta e intendo anch’io omaggiarlo con una serie di articoli a cominciare da questo che ne illustra le opere pittoriche. Anche perché le opere di Leonardo sono tutte sovraccariche di mistero, facile quando la mano dell’esecutore è guidata dal divino e quella divin manina riesce a trasmetterla ai tanti allievi. Al Museo della Scienza e della Tecnica a Milano, la mostra Parade espone il Salvator Mundi di Bernardino Luini e, chi lo ammira non può non sentirsi a cospetto di Dio in persona. Con la mano destra il Salvatore si sforza a tenere sollevato un mondo di fragile vetro, con la sinistra è benedicente, il colore rarefatto dal tempo che lo ha reso mistico allo stato puro, sembra far apparire nel salone invaso dai modelli dei disegni dell’ingegnere Leonardo tratti dal Codice Atlantico una visione ultraterrena e sconvolgente. Al pari del Cenacolo del maestro. L’ho rivisto proprio lo scorso anno, approfittando di visite straordinarie messe a disposizione di spettatori affamati dell’Ultima cena, dopo un’interminabile lista d’attesa. Qualche giorno dopo in televisione hanno mandato uno speciale su Leonardo nelle Meraviglie d’Italia di Alberto Angela e ho scritto nella chat degli amici con cui ero andata a vedere il capolavoro milanese uno sproloquio contro il conduttore, colpevole dal mio punto di vista di poter godere di un vasto pubblico e di enormi mezzi per divulgare verità poco note, spesso perché scomode. Alberto, in particolare, mi aveva fatto arrabbiare perché sosteneva che l’opera del genio si era guastata molto presto e dacci una data!, dal momento che è tutto documentato:già nel 1517De Beatis, un cronista del tempo, riferendosi al Cenacolo avvisa che già cominciava a guastarsi. Allo stesso modo Giorgio Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568) accenna a una macchia abbagliante, per la quale già si sollevò il sospetto che la pittura fosse stata eseguita ad olio. Quindi, Alberto, anche io avrei indagato il motivo, che era stato ben riconosciuto già nel Seicento.
Perché mi ero infuriata con il pusillanime Alberto è presto detto: il decadimento dell’opera che ha contribuito a rendere celebre la fama del Cenacolo dal raccomandato figlio di (che io ignoravo fino a quella sera essere amatissimo) veniva associato al tempo. Certo è la prima causa che viene da imputare, e certo il tempo non è stato clemente con un’opera che, a dirla tutta, soffre di un grave errore del Genio. La sera che raccontavo agli amici della tecnica impropriamente usata da Leonardo, io stessa mi sentivo alquanto irriverente nei confronti di un idolo. Ma i miei sensi di colpa lasciano il tempo che trovano. Avrei voluto scrivere quella sera ad Alberto Angela, come sono solita fare quando qualcosa che sento o vedo non mi va giù, ma ha provveduto la sua stessa superficialità che lo aveva portato a chiamare come esperta del patrimonio culturale e paesaggistico umbro Monica Bellucci, nota specialista della materia. E così, per non sbagliare più, nello speciale sulle Dolomiti, è stato ammonito dalla provincia di Belluno che gli ha insegnato che anche la provincia di Belluno le possiede con la scoccata: “Se si tratta di disinformazione, sarebbe meglio che qualcuno rimediasse”. Il punto è che stai svolgendo uno speciale e non puoi soffermarti al noto, soprattutto visti i mezzi che hai a disposizione e il vasto pubblico cui puoi rivolgerti.
Ma torniamo alla pittura di Leonardo all’interno del refettorio di Santa Maria delle grazie. Non è stato il tempo a far decadere la pittura dell’Ultima cena, ma la tecnica che il Maestro utilizzò per dipingerla: Leonardo per il Cenacolo usa la pittura a tempera grassa come se fosse pittura su tavola e non su muro. Dell’errore se ne accorse presto la critica e i visitatori del tempo che dovettero notificare troppo presto il deterioramento del colore. Giorgio Vasari scrive che il re di Francia Francesco I si informò se fosse possibile staccarlo dal muro – metodo di restauro conservativo in uso con lo strappare l’affresco come principale metodo di restauro di pittura murale. Matteo Bandello ci racconta nelle sua cinquantunesima novella quando vide Leonardo all’opera nel refettorio della chiesa domenicana:

Erano in Milano al tempo di Lodovico Sforza Vesconte duca di Milano alcuni gentiluomini nel monastero de le Grazie dei frati di san Domenico, e nel refettorio cheti se ne stavano a contemplar il miracoloso e famosissimo cenacolo di Cristo con i suoi discepoli che alora l’eccellente pittore Leonardo Vinci fiorentino dipingeva; il quale aveva molto caro che ciascuno veggendo le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere”. Dopo aver raccontato della salita sui ponteggi del pittore e della solerzia del suo lavoro che lo tratteneva sopra da “la matina a buon’ ora […]a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere.”, sottolinea quanto Leonardo fosse lento nell’esecuzione: “Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’averebbe messa mano, e tuttavia dimorava talora una e due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava, ed essaminando tra sè, le sue figure giudicava. L’ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie, ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di subito partirsi e andar altrove”.

Fu questo il problema di Leonardo: era troppo lento per praticare quella che era la tecnica murale più in voga ai tempi, ossia – come ci tramanda Giorgio Vasari nella seconda edizione delle Vite – la tecnica dell’affresco che – come chiarisce l’etimologia del termine – per evitare che la pittura secchi e rimanga imperitura così com’è – richiede rapidità di esecuzione, affatto opposta al modo di procedere di Leonardo, che invece “contemplava, considerava, ed essaminando tra sè, le sue figure giudicava”. I puntini di sospensione con cui ho precedentemente tagliato la citazione di Bandello ci riferiscono che Leonardo raccogliesse anche i pareri altrui. Non si sa mai. Altri pittori, prima di lui avevano impiegato a muro le tecniche pittoriche su tela o su olio. Tra gli altri, Piero della Francesca. Tuttavia con il Cenacolo  Leonardo doveva vedersela anche con la Milano di allora che era una vera e propria città sull’acqua con un apporto di umidità che saliva dal suolo per capillarità, danneggiando il dipinto. Oltretutto era collocato in alto dietro la parete della cucina dei frati, che comportava infiltrazioni di fuoco, fumi e vapori.
Il nuovo metodo a fresco è specificato e ben esaminato per la prima volta da Leon Battista Alberti nel suo De Pictura del 1435. Leonardo sceglie la tecnica sbagliata non soltanto perché gli permetteva di adeguarsi al suo modo di procedere piuttosto lento, ma anche perché gli permetteva di ritornare più volte su ciò che aveva già dipinto, di usare tonalità e densità ricche che la pittura ad olio permetteva, e non doveva rinunciare allo sfumato.
La commissione del Cenacolo rappresenta per Leonardo il più ambizioso lavoro affidatogli da Ludovico il Moro durante il suo soggiorno a Milano. Lo dipinse dal 1495 al 1497. La composizione che il pittore fiorentino adotta richiama i suoi studi sui moti delle acque, in particolare, quelli sul fiume Adda, i cui flussi convergono e divergono impetuosi e contemporaneamente armoniosi. Egli crea un ampio flusso che scorre nella tavolata e si divide in gorghi minori raggruppati a tre a tre, numero della Trinità. I volti degli apostoli risentono, invece, degli studi condotti negli anni Novanta sulla fisiognomica. Leonardo cerca di bloccarli l’immagine nel momento in cui Cristo pronuncia la frase Uno di voi mi tradirà.
Ma Bandello ci tramanda anche una pittura leonardesca davvero tormentata. Ed effettivamente le opere di Leonardo sono tutte sovraccariche di mistero, facile quando la mano dell’esecutore è guidata dal Divino.

Il caso più noto è rappresentato dalla Gioconda, emblema del pittore e anche delle fake news sul suo merito. Sorvolo sull’articolo che riporta un‘intervista in cui Vittorio Sgarbi le dà della gran puttanona, perché i giornali di destra ci hanno insegnato che i titoli sensazionalistici richiamano l’attenzione del lettore e poco della deontologia professionale e Sgarbi è un provocatore ormai sempre più ridicolo, ma lo showman pare convinto di quello che dice. Eppure gli studi hanno ormai accertato che si tratta di una puerpera, come dimostrerebbe la veste indossata tipicamente dalle neomamme quattrocentesche e dunque il misterioso sorriso è forse semplicemente la prima tenera comunicazione tra una mamma e suo figlio. Chissà. Invece, una cosa è certa, ma sempre negata per patriottismo ridicolo: nessun francese ci deve restituire la Monna Lisa, semplicemente perché il lumacone Leonardo dopo Milano, si trasferì in Francia e qui si portò il ritratto che doveva completare. La Gioconda potrebbe essere stata poi acquistata, assieme ad altre opere, da Francesco I, suo ammiratore, come già dimostrava l’interesse per il Cenacolo.
Si sa che un secolo dopo, nel 1625, un ritratto chiamato “la Gioconda” fu descritto da Cassiano dal Pozzo tra le opere delle collezioni reali francesi. Altri indizi fanno pensare che fin dal 1542 si trovasse tra le decorazioni della Salle du bain del castello di Fontainebleau. Inoltre, Leonardo morì in Francia e qui fu seppellito nel castello di Ambois.
Più tardi Luigi XIV fece trasferire il dipinto a Versailles, ma dopo la rivoluzione francese venne spostato al Louvre. Napoleone Bonaparte lo fece mettere nella sua camera da letto, ma nel 1804 tornò al Louvre. Durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871 fu messo al riparo in un sito nascosto. Oggi è tornato al Louvre. Ma mi trovo d’accordo con Sgarbi nel definire migliore di questo inestimabile capolavoro La dama con l’ermellino e proprio per l’inusuale iconografia di questa donna bellissima che, tanto bella, però stranamente non vanitosa, non vuole essere guardata e, pertanto è la prima a distogliere lo sguardo. Ma Cecilia Gallerani, con cui si identifica la donna ritratta è una nobile sedicenne fedifraga, moglie del conte Ludovico Carminati de’ Brambilla, detto “il Bergamino” e una delle amanti di Ludovico il Moro. Non vuole essere riconosciuta? Malgrado i pittori rinascimentali potessero contare su dettagliati bestiari medievali, l’ermellino sembra più un furetto. E che l’aspetto reale dell’animale fosse noto lo dimostra il lungo animale presente ai piedi del Giovane cavaliere in un paesaggio di Vittore Carpaccio. E, dunque, il pittore della natura non poteva aver sbagliato stavolta proprio lui che fa fiorire di gelsi e altra vegetazione, ispirata dagli studi dell’artista vinciano sulla decorazione con motivi vegetali mediante la sezione Degli alberi e delle verdure nel Trattato della pittura,  cui si affianca una rilettura dei testi di Vitruvio in chiave naturalistica. La vegetazione resa realisticamente sale dal monocromo della Sala delle Asse del Castello Sforzesco che a fine dei lavori di restauro, tuttora in corso, tornerà al pubblico nel suo splendore originario, anch’esso perduto per l’uso improprio della tecnica della pittura a tempera su muro. Applicata in una sala che si chiama delle Asse perché lunette e  soffitto, erano ricoperte da assi lignee, per la loro capacità di contenimento della temperatura e umidità, evidentemente insistenti nell’ambiente. Quest’ermellino potrebbe, dunque avere valore simbolico, considerando che nel 1488, Ludovico il Moro ricevette il prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino dal re di Napoli. Poi il candido manto dell’ermellino rappresenterebbe la falsa purezza e incorruttibilità della sedicenne traditrice, ribadita per vergogna.  L’opera è determinata dalla stessa precisione botanica che caratterizza la Vergine delle rocce, costituendo un ambiente umido fortemente realistico che allude a uno tutto simbolico perché richiama il ventre femminile.

 

 

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Una risposta

  1. 23 Maggio 2019

    […] al Castello Sforzesco di Milano. Perché qui Leonardo da Vinci non decorò soltanto il refettorio di Santa Maria delle Grazie, ma dopo questa committenza passò al vicino Castello Sforzesco per decorare la Sala delle Asse con […]

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