‘Cafarnao – Caos e miracoli’ nell’immigrazione

Vittore Carpaccio, Giovane cavaliere in un paesaggio - partcolare con ermellino, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid (Colección Permanente)

La mattina del Venerdì santo è stata preveggente del film che avrei visto la sera: Cafarnao – Caos e miracoli. Mi piace dormire il più possibile al mattino e mi piace svegliarmi bene con buona musica e una buona colazione. Quando così non è, Antonia mi rincorre tutta la giornata con la frase Ti sei alzata con la luna storta. Venerdì mi sono alzata con la luna storta, perché mi ha svegliata definitivamente lo squillo del cellulare. Mia sorella mi chiedeva chi potesse contattare per aiutare una famiglia di senzatetto: padre e madre con in braccio un neonato appeso al seno e tenuta per mano una bambina in ciabatte. Sembrano appena arrivati e sono palesemente affamati così lei dà loro la brioche che stava mangiando. Una per quattro. In pausa pranzo, prova a sfamarli meglio con quattro panini, ma non li trova più. Io nel frattempo mi mobilito per cercare i contatti di altre associazioni che stanno in zona, oltre a quelle che mi sono venute immediatamente in mente. Intanto rileggo un post che durante la notte mi aveva molto impressionata e adirata. Lo ha scritto Virginia Di Vivo, studentessa di Medicina a Modena. Il post è tremendo. Scrive Virginia:

Generalmente non mi espongo su questi fatti, perché non sono informata a modo, ma questa cosa ve la devo troppo raccontare.

#MoreMed2019

Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è “sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute”. Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di *lallallà*. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”. Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:”Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano”. Mi perplimo.

Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua.

“Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre”.

Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone.

“Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio”, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia.
Mi dimentico dei Pokémon.
“Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo”.
Metto il cellulare in tasca.
”Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..”
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti li, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare”.

Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio. [anch’io, sotto lecoperte, leggo attonita e atterrita, muta come un pesce, fino alla telefonata che mi ha svegliata].

“Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta” ci mostra la foto del loro abbraccio.

“..Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Si, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo”.

Fa partire un video e descrive:”Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!”.

Sorridiamo tutti.

“Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai.”

Foto successiva.
“Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali”.

Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. “Non sono manichini” ci dice.

Il video prosegue.
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. “Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai”.

Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso.

“E questo è il risultato” ci mostra l’ennesima foto. “368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità”.

Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Si, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, “non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!”.

E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.

#fuocoammare”

lo so è durissimo leggere questo post, ma mi è sembrato giusto riportarlo per intero per onorare la richiesta del dottor Bartolo di raccontare quanto ha raccontato. Introducendo questo film affatto in sintonia con il discorso dell’internista. Perché Cafarnao di Nadine Labaki mostra spietatamente la verità di chi è costretto a lasciare la propria terra per potere finalmente vivere. Perché io non ce la faccio proprio a capire come non si possano comprendere le ragioni che spingono gli immigrati a lasciare le proprie bellissime terre d’origine e le loro famiglie natie, tutto quel poco che hanno per affrontare quello che io non riesco a sopportare nemmeno durante una piacevole e breve gita in barca: sole, intemperie e mare mosso, vomito, affollamento, vesti zuppe d’acqua salata che brucia e insieme congela le carni. Malattie. Stipata tra tutte quelle persone, io e il mio sistema immunitario gravemente affannato, ci prenderemmo davvero di tutto: malattie della pelle, e delle vie respiratorie tutte, anche quelle ancora sconosciute. Una volta ho fatto un servizio sulla Croce rossa di Sesto San Giovanni che ho seguito in una notte tra i senzatetto. Nevicava. Ho visto davvero di tutto. È stata l’esperienza lavorativa migliore che ho fatto. I ragazzi della CRI mi hanno preventivamente avvisata di non toccare per nessuna ragione i senzatetto perché in molti soffrono di malattie alla pelle pesantemente contagiose. Il giro è durato qualche ora e c’era la neve quella notte. Malgrado fossi imbottita, manco fossi l’omino Michelin, scarponi Yeti ai piedi, il giorno dopo avevo la febbre sopra i 40°, mentre tutti quegli uomini e donne senza casa stavano sotto portici, tettoie di stazioni o supermercati a cercare precari ripari. Il primo ragazzo incontrato era alla sua prima notte fuori casa, l’ultimo non voleva lasciare per alcun motivo il suo nuovo tetto di stelle ammirato in compagnia di un vecchio malato di eroina con le gambe tutte tumefatte da buchi per farci passare dentro la droga. Ecco, Cafarnao è ancora una botta maggiore, anche per il periodo storico in cui stiamo vivendo, in cui  l’umanità è usata a guisa di carta igienica. E io, non so voi, non so proprio cosa fare e l’astenia è troppo vigliacca e inutile, ma cos’altro fare proprio non lo so.
Dicevo che Cafarnao mette in rilievo tanti se non tutti i motivi che spingono gli immigrati a scappare da casa. Di recente, ho scoperto che Actionaid ha attivato una campagna in favore delle spose bambine
Che ossimoro tremendo e quanti ne ho sentiti durante la proiezione del film. Questo orrore nel film è raccontato dalla sorella del protagonista Zain, Sahar, che verrà data in sposa ad Assadd, proprietario di un negozio di alimentari e della baracca dove vive il bambino con la famiglia. Questo matrimonio schifoso è l’ultima goccia che fa scappare di casa Zain dalla miseria e dall’ignoranza. Zain cerca di riparare dalla nonna, ma, affascinato dalla figura dell’UomoScarafaggio, cugino dell’UomoRagno, scende prima e insegue il personaggio del fumetto che vive in quello che di sfuggita gli appare un paese dei Balocchi che invece si rivelerà un’altra favelas di baracche di lamiera gremite di poveracci disposti a fare i lavori più umilianti pur di mangiare e far mangiare i propri figli. E così risprofonda nella miseria di una famiglia non del sangue, ma scelta, come quelle che piacciono a me.

Si unisce a Rahil, una bellissima emigrata proveniente dall’Etiopia con il permesso di soggiorno in scadenza che abita in una bidonville insieme al suo piccolo figlio Yonas, dal momento dell’incontro suo nuovo fratellino (anche se i colori della pelle non sono gli stessi), cui insegna a camminare e farsi furbo per sopravvivere, nel momento in cui rimarranno senza la mamma Rahil, incarcerata e così scomparsa all’improvviso dalla vita dei figli, che devono sforzarsi di sopravvivere. Gli fa mangiare falafel e latte rubato alla vicina, pure lei in miseria, ma più ricca, quando butta male, come aveva imparato dalla madre naturale, mangiano ghiaccio e zucchero per stare in piedi, e Zaian porta a spasso Yonas a bordo di una pentolaccia montata sopra uno skateboard rubato sempre alla vicina, in giro la notte insieme a spacciare tramadolo (un oppiaceo). Anche in questa nuova favelas c’è lo sfruttatore senza scrupoli di turno, che stavolta si chiama onomatopeicamente Aspro e non punta alla bella Rahil, ma al figlio Yonas, che vuole vendere. Un giorno, mentre si trova al suq della città intento a vendere delle pentole, Zain incontra una ragazzina di nome Maysoun, una rifugiata siriana che gli dice che Aspro le dà la possibilità di fuggire in Svezia. Zain chiede anch’egli ad Aspro di usufruire di questa possibilità e inizia a mettere da parte i soldi per la traversata, risparmi che poi però gli vengono indebitamente tolti dal padrone della baracca che ha cambiato il lucchetto alla porta e chiuso per sempre le speranze di Zain che avvilito e ormai in preda alla disperazione, dolorosamente decide di abbandonare il nuovo fratello cui oramai è teneramente affezionato, per tornare alla casa natia a prendere i documenti che gli permetterebbero di lasciare il paese. Ma i documenti non ci sono, Zain nemmeno esiste per l’anagrafe, invece ritrova i genitori che decide di portare al tribunale di Beirut, colpevoli di averlo messo al mondo e della morte della sorella sposa bambina. Zain è già stato in questo Tribunale che lo ha incriminato per l’omicidio di un “figlio di puttana”. Trasferito nel carcere di Roumieh, ritrova pure la sua seconda mamma Rahil e scopriamo che anche il fratellino di Zain non ha fatto una bella fine, vediamo un primo piano del bambinello con le guance paffute solcate da lacrimoni, gli stessi della mamma che si dispera quando vede nello stesso carcere il bambino cui aveva affidato il suo piccolo.
Cafarnao significa confusione, ma nel film niente è confuso, anzi è tutto troppo chiaro, purtroppo.

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