Immersione nella chiesa ipogea di San Sepolcro a Milano

Sarà stata la clausura forzata, ma da quando ho ripreso a girare per luoghi e mostre d’arte, mi entusiasmo come una bambina alla vista di certe meraviglie del nostro territorio.
Per ora preferisco rimanere a Milano, che si sta rialzando dal lockdown con tante riaperture. E amaramente capisco di quanta bellezza ci ha privato la pandemia e di quanto sia importante arricchirsi di conoscenza e bellezza. E così il primo giorno della riapertura della chiesa ipogea del Santo Sepolcro, io ero in prima fila. È una basilica tipica pianta a croce latina con tre navate divise da filari di colonne che sostengono volte a crociata delicatamente decorate con un cielo fatto di florescenze vegetali astratte e astri fitomorfici risalenti a XIII-XIV secolo. La storia di questa chiesa sotterranea è millenaria, risale, infatti, alla Milano imperiale e precisamente al 1030, quando il monetiere di Milano Rozzone fece erigere sull’antico foro romano una chiesa che l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano consacrò solennemente alla Santissima Trinità. Ma al ritorno dalle crociate, dopo la riconquista di Gerusalemme, il 15 luglio 1100, l’allora arcivescovo di Milano, Anselmo IV da Bovisio, a memoria di questo straordinario evento, cambiò la dedicazione in chiesa del Santo Sepolcro. Che è riprodotto tale e quale al sepolcro di Cristo conservato in Terra Santa e conficcato ancora più sotto dell’impiantito del presbiterio, con San Carlo Borromeo ad accudirlo e pregarvi sopra. Il santo di Milano era molto affezionato a questa chiesa, dove di notte amava ritirarsi in preghiera. Il carattere ipogeo della Chiesa lo espresse dedicandole queste parole: “in media civitate constructa, quasi Umbilicus iacet”, tradotto “Essendo stata costruita nel centro della città, ne è per così dire l’ombelico”. Sopra volte affrescate da rosette e croci, stelle polilobate a sei e otto punte e palmette, con ghiere dipinte a finti mattoni. E in tondi si affacciano angeli. Di fronte all’edicola con il Santo Sepolcro, dietro un muro, attraverso grate si intravede un altro sepolcro questo del tutto spoglio, a differenza di quello copia dell’originale a Gerusalemme, lavorato con bassorilievi su tutti i lati realizzati da un maestro campionese del primo Trecento, che a me pare troppo ricco per accogliere un condannato a morte per lesa maestà. Ne preferisco immaginare uno semplicemente in pietra senza alcuna decorazione se non addirittura nessun sarcofago, ma alla Pier Paolo Pasolini del Vangelo secondo Matteo, che ha come primo merito la capacità di rifarsi sì all’iconografia delle arti, senza mai cadere e soprattutto scadere nel caricaturale e nel macchiettistico. Basta rivedere la tentazione di Satana nel deserto. Dove Satana è un uomo tra i più comuni, e per dimostrarcelo senza lasciarci alcun dubbio, la telecamera scende giù ed esita sino ai piedi con calzari scalcagnati, altro che zoccoli caprini! Oppure i re Magi per i quali abbandona le iconografie folcloristiche tradizionali, ma semplicemente copre loro la testa con un telo a strisce orizzontali azzurre e bianche, proprio come quelle “corone” che ci tramandano le raffigurazioni dei faraoni, come Tutankhamon.
Non soltanto le volte sono decorate, ma restano ben visibili alcuni affreschi a parete.
Nel vestibolo d’ingresso, una Crocifissione tipicamente medievale: Gesù è inchiodato a una croce a T, nudo e con le costole gettanti in fuori il corpo livido coperto da un perizoma bianco e pianto da un lato dalla Vergine ritratta tale e quale dall’arte paleocristiana, dall’altro da san Giovanni. Accanto, un altro affresco alterna i protagonisti del precedente: sempre al centro c’è Cristo con il mondo in mano, accompagnato dalla Maddalena, vestita dei suoi capelli, e dalla Madonna con corona illuminata dall’aureola e veste da puerpera e mano sul pancione del tutto affini a quelle della Madonna del parto di Piero della Francesca. Dà un’interpretazione differente da quella di monsignor Marco Ballarini, prefetto dell’Ambrosiana che concorda sull’inequivocabile Maddalena, mentre individua al centro San Giovanni Battista che indica con l’indice l’agnello di Dio e a destra una figura coronata, probabilmente Sant’Elena, colei che ha riscoperto la vera croce di Cristo. Sia i soggetti da me ipotizzati che quelli attribuiti dai critici tornano altrove nella chiesa ipogea, fino all’uscita che ripropone sul fondo di una volte a botte la crocifissione stavolta a grandezza naturale. Cristo morto sta in mezzo a Maria e San Giovanni dolenti, due angeli, il sole e la luna. Accanto sul lato lungo, la salita al calvario, dove l’imago Christi è spinta da una folla travolgente:sono scene della Passione.

Nel lato opposto rispetto agli affreschi dell’ingresso, nella cappella mariana, è riapparso un affresco stavolta cinquecentesco (1520 circa) con al centro la Madonna col Bambino, a sinistra San Giovanni Battista, a destra San Rocco, protettore molto importante perché protettore anche contro la peste e la figura in basso, in ginocchio ai piedi della madre vestita di nero con panneggio abbondante, abito aristocratico, probabilmente la figura del donatore capellone. Quest’affresco può essere ammirato sotto una volta a crociera con il cielo blu notte, stavolta stellato con il Sole, raggiante nella chiave di volta.
C’è anche un ulteriore lacerto di affresco anche se appare più sbiadito in cui si intuiscono degli angeli che portano una casa e sotto la Madonna col bambino quindi potrebbe trattarsi della Madonna di Loreto.
E il ritratto di un’altra madonna velata in un quadro funge da architrave lungo la parete di una delle navate laterali. Anche architettonicamente, la chiesa merita per decorazione e ornamenti. Basti pensare agli oculi tra i settori occidentali e mediano della cripta; uno dei quali è coperto da una griglia traforata in marmo. E i sottarchi che Gino Chierici nel 1940 così descrisse: “Dobbiamo notare come gli architetti dell’alto medioevo tenessero a dareai sott’archi l’aspetto di archi falcati cercando di nascondere, quanto potevano, gli spessori alla base sotto l’intonaco che doveva figurare l’inizio della volta […] i sott’archi sono affatto indipendenti dalle volte che sostengono e con le quali restano però solidali, così come lo sarebbero centine in legname. Partono con sezioni minime, talvolta di soli tre centimetri, poggiando sull’abaco o sopra una specie di pulvino di mattoni e aumentano gradatamente di spessore fino a raggiungere la massima dimensione in chiave(resistenza alla flessione) il difetto dello spessore all’imposta. Si ancora vaga e nebulosa, ma non priva di consistenza tecnica”. Nell’antico velario, è riapparsa la Cena in casa di Simone.
L’apparato scultoreo è mirabile soprattutto nei capitelli, tutti diversi l’uno dall’altro. Ed evidentemente nei rilievi del sarcofago con gli angeli luciferi, il Noli me tangere o i Soldati addormentati sul coperchio del sarcofago.
Ma il capolavoro scultoreo di San Sepolcro si può ammirare nella chiesa superiore nel Compianto in terracotta di Agostino Fonduto, databile 1520. In terracotta con alcune cromie superstiti, ricorda nei persobnaggi nudi il Compianto di Niccolò dell’Arca, conservato conservato nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna e di un secolo precedente all’opera da cui evidentemente Fonduto allude. È l’opera scultorea certo meno rappresentativa del Rinascimento, principiante in quegli anni e tutto ragione e pacatezza dei sentimenti, caratteristiche cui si ribellano Dell’Arca prima e Fonduto poi, persino anticipando l’espressionismo più caratterizzato del Novecento,
Complice la rossa terracotta a vista, i piangenti paiono mummificati, come se siano stati scorticati vivi dal tempo, e per sempre immortalati nell’ultima espressione che il corpo ha manifestato davanti alla morte del Cristo. Inoltre entrambe le composizioni scultoree violano il principio fondante della statuaria che, già nell’etimo del termine pretende staticità.
A emiciclo, attorno al Cristo morto, ci sono , Giovanni, Zelomi con il figlioletto, Giuseppe d’Arimatea, Salome, Maria di Cleopa/Alfeo che sostiene la Vergine svenuta, Maria Maddalena, Nicodemo. Fonduto realizza diversi compianti dello stesso stile. A Milano, il più famoso è conservato nella Chiesa di San Satiro, non distante da San Sepolcro.

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