Il grido interiore di Munch urla a Palazzo Reale

Il grido interiore di Munch al Palazzo Reale di Milano è l’esperienza più impattante per conoscere davvero il pittore Edvard Munch.
Perché la mostra è un’antologica nel senso proprio: i 100 lavori in mostra – tutti provenienti dal Munchmuseet– sono tutti del pittore norvegese e l’unico quadro che la stragrande maggioranza delle persone sa essere la sua opera è presente solo in litografia, tanto chi non conosce L’Urlo? È l’opera più iconica di Munch e per questo svuotata del suo significato più profondo: Munch non dipinge mai uomini, ma le loro emozioni del momento in cui li coglie, semplicemente colorando – e così accendendo fino a farle esplodere – le loro espressioni. Non è come capita purtroppo troppo spesso con le mostre intitolate al pittore più acclamato di cui poi in mostra sono esposti poche opere. No, la curatrice Patricia Berman, una delle più grandi studiose al mondo di Munch, insieme con Costantino D’Orazio per il supporto nella redazione dei testi di approfondimento, non ci fanno il torto di prometterci con un titolo addirittura il grido interiore del pittore per poi non farcelo ascoltare. Il grido è tra l’altro quanto la più interna espressione che vuole esplodere al di fuori dalla solitudine e della malinconia che hanno caratterizzato la vita del pittore espressionista.

Perché di mostre dei grandi espressionistiMuseo Diocesano escluso – Milano non ne programma e chissà perché. Forse è disturbante a differenza degli impressionisti che di mostre, infatti, fanno incetta.
Si pensi alle sue Madonne anoressiche di Munch, l’occhio abituato com’è a quelle bellissime e dolcissime rinascimentali, non può accettare quelle di Munch, meno ancora la Chiesa potrebbe, impudiche, quasi lisergiche, circondate da spermatozoi che si rincorrono sulla cornice. Mostrano il seno, ma manca il Bambino a guisa di Madonna del latte per giustificare tanta lascivia.


L’amore, d’altronde, in Munch è una passione così esagerata che la donna che si china sull’uomo è ammantata di capelli rosso fuoco e non è donna mortale, ma Vampira, in mostra cene sono ben tre a succhiare sangue.

Altrettanti gli uomini che si fanno prendere dalla rete di capelli rossi tentacolari. D’altronde, ne Il bacio di Munch, non c’è il morso maledetto, ma i due amanti sembrano risucchiarsi l’un l’altro fino a fondersi nel colore, stavolta cinerino. Non fuse nel grigio, ma restano in bianco e nero, invece le Coppie innamorate nel parco, alle quali si fondono soltanto le labbra.
Riescono a stare staccati solo gli amanti di La morte di Marat, che grida ancora una volta l’ossessione di Munch per le donne fatali, stavolta nel senso di assassine: al centro c’è Charlotte Corday che uccise Jean-Paul Marat, ritenendolo il principale sobillatore della guerra civile. Il dipinto è ispirato da una violenta lite del pittore con la sua amante Mathilde “Tulla” Larsen, Munch fu ferito da un colpo di rivoltella alla mano sinistra: attraverso un gioco erotico, mentre Tulla aveva finto di soccombere a una dose di morfina e si era abbandonata distendendosi in una bara circondata da candele. La storia con Tulla fu tumultuosa al punto che in uno scontro il pittore fu ferito a un dito da un colpo di pistola, per cui avrebbe dovuto dipingere e lavorare senza l’ultima articolazione del dito per il resto della sua vita. In mostra gli altri due amanti non fusi tra loro sono proprio Edvard e Tulla nell’Autoritratto su sfondo verde, anzi sono ben separati da un dittico. D’altronde anche il Pittore e la modella si trovano su due piani diversi.


Sono di nuovo appiccicati fino a fondersi i due amanti incorniciati nella porta di una stanza verde, punto di fuga di una faccia appuntita rossa di capelli: è la Gelosia, un dipinto di Edvard Munch, risale al 1907, l’opera ritrae una scena di intensa carica emotiva.
In primo piano, infatti, una figura maschile ha un’espressione sconvolta, segnata dall’angoscia e dalla disperazione, cattura l’attenzione. I suoi occhi, spalancati in un misto di dolore e desiderio, fissano direttamente l’osservatore, coinvolgendolo nel suo tumulto emotivo. È questo il secondo filone delle emozioni che il pittore norvegese colora sulla tela: morte, angoscia e disperazione.
La vita di Munch è stata segnata da grandi e precoci dolori. La perdita prematura della madre a soli 5 anni e della sorella malate entrambe di tubercolosi, la morte del padre, la morte del senno della sorella Laura, l’alcolismo forte e la tormentata relazione con la fidanzata Tulla sono stati il materiale emotivo primigenio sul quale l’artista ha cominciato a tessere la sua poetica, la quale si è poi combinata in maniera originalissima con il suo talento artistico, che spinge il pittore norvegese a cancellare gli occhi dai volti, come a svuotarli dell’anima, se è vero che gli occhi ne sono lo specchio; a usare colori accesi al punto da abbagliare o lividi da coltre funebre.

Aveva gli occhi come di un migliaio d’anni
(Edvard Munch)

Non soltanto le persone, anche i paesaggi portano il dolore addosso. In mostra possiamo ammirare una Notte stellata senza stelle, sembrano piuttosto ufo. La notte di Ekely, dove il pittore ha casa, si copre con una coperta di neve che, quindi, non può scaldare, striata da ombre, una oblunga forse appartenente allo stesso pittore e poi forse una seconda ombra in basso a destra che parrebbe una testa di profilo con i capelli lunghi e il nasone appuntito. Le ombre in cima alla collina sono enormemente distanti dal villaggio illuminato dalle luci elettriche, a sottolineare la solitudine del pittore. Possiamo immaginare altre presenze sinistre dietro le finestre illuminate delle case a ridosso della collina dalla prospettiva impossibile. Piuttosto è la luna a illuminare la notte bianca, ma macchiata di lividi. Aveva il freddo dentro, pur sotto la coperta, la notte di Ekely.


Luna luminosa a illuminare ancora una notte neve coperta di neve, oltre alle luci dietro cui immaginare sinistri atti di violenza e ombre oblunghe caratterizzano l’altro paesaggio stralunato in mostra: Muro della casa al chiaro di luna, stavolta il protagonista è il muro su cui si proietta l’ombra sempre solitaria e inquietante. Cosa accade al di là della parete? Nella casa del pazzo di Francesco De Gregori il pazzo si ammazza, ma qui cosa sta succedendo? La barriera del muro scherma la visione, ma dà via all’immaginazione. A guardar bene attraverso i colori, il pericolo non sembra venire dalla casa, dipinta in tenui e rasserenanti tonalità di rosa e blu, con finestre che risplendono di una luce calda e invitante da focolare domestico. Forse il pericolo viene dal lato sinistro del dipinto, dominato da un albero scuro e minaccioso che si staglia contro il vibrante cielo turchese. Il cielo stesso è una massa vorticosa di blu e verdi, punteggiata da accenni di stelle, creando un senso di movimento ed energia. Il terreno, reso in tonalità di marrone e blu, tutto è avvolto da un velo di mistero, scioglibile al chiaro di luna che in altri suoi lavori serve a Munch per descrivere una calma soltanto apparente. Ma qui la luna manco c’è, a meno che non sia quel cerchio giallo incastrato tra i rami tentacolari dell’albero cattivo.
“In uno stato fortemente emozionale, un paesaggio susciterà un particolare effetto. Nei suoi appunti Munch annota:

Raffigurando un paesaggio, si produrrà un dipinto influenzato dal proprio umore. Questo umore è la cosa principale. La natura è soltanto il mezzo.

(Munch, Appunti)

Forse gli espressionisti sono negletti dai circuiti espositivi perché, non siamo ancora pronti a scandagliare le emozioni, le passioni e i sentimenti degli altri, che poi sono i nostri.
E Munch mette i suoi completamente a nudo: la mostra a Palazzo reale ha proprio quest’altro pregio, cioè ci permette di conoscere la vita interiore di quest’uomo che ha sofferto incommensurabilmente privato affatto del mondo muliebre, segnato da troppi lutti e morbi fatali, amori violenti.

La conoscenza di Munch avviene anche e soprattutto da parte nostra e propria del pittore attraverso i numerosi autoritratti che fa di sé, genere di autoconsapevolezza per eccellenza, l’autoritratto e il ritratto lo sono ancora di più nell’espressionismo, come soprattutto si evidenzia in Munch, che nel primo degli autoritratti in mostra, Autoritratto a Bergen del 1916 offre una profonda introspezione nella psiche dell’artista norvegese: Munch usa questo lavoro come uno specchio che riflette non soltanto il suo esterno, ma anche le lotte interne che hanno segnato la sua vita. È seduto di profilo in primissimo piano a guardarci occhi negli occhi, gli stessi che si stanno guardando per fotografarsi.

È strano guardare se stessi dal palazzo di fronte

(Gabriele /Marcello Mastroianni) in Una giornata particolare di Ettore Scola)


È evidente il contrasto di colori tra il bianco e nitido paesaggio di sfondo e l’accensione di quelli che servono a Munch per ritrarsi: la tavolozza dei colori è desolante, dominata da toni scuri che evocano sensazioni di tristezza e riflessione. Il blu, il marrone e il nero predominano, mentre i toni più caldi che avrebbero potuto fornire un sollievo emotivo sono quasi inesistenti, suggerendo una lotta costante con le loro emozioni. Mentre per dipingersi usa un garbuglio di linee ondulate e pennellate libere, lo sfondo è ancora fortemente figurativo, proprio come nell’Autoritratto del 1882: il pittore aveva 19 anni, e si rappresenta in stile realistico e figurativo attraverso pennellate precise e da lineamenti ben disegnati, che descrivono una grande risolutezza.
Ma quando arriva Tulla nel dittico del 1905, dopo che Munch era stato colpito dalla donna alla mano sinistra dopo una colluttazione in camera da letto. Il colore è protagonista, Munch è sempre dipinto come un uomo ormai maturo e determinato, ma l’uso dei colori complementari stride l’insieme che non c’è più (da qui il dittico) dopo lo sparo.


Nell’Autoritratto davanti al muro di casa del 1926 il pittore si vede in un momento di introspezione e crisi personale, come si evince dall’espressione contemplativa di Munch, resa con la mano sul petto, che aggiunge, appunto, un senso di introspezione al ritratto. L’uso di colori vibranti e pennellate visibili contribuisce all’espressività del dipinto. Domina ancora il verde che tinge anche la parete prima bianco-lunare della casa di Ekely ha una mano di verde. Munch lo usa sempre quando vuole farci capire che l’aria che si respira sia in realtà un’aria viziata, pesante, di malattia e ci vorrebbe addirittura far sentire l’odore dei medicinali e il senso di chiuso, il male e la sofferenza che escono fuori dal corpo. Si guardi l’uso che fa del verde nei quadri in mostra come L’Assassinio e Visione.


La pandemia influenzale del 1918 1920 ebbe conseguenze molto dure ad Oslo come nel resto del mondo, anche Munch si ammalò nel 1919 di febbre spagnola e il pittore che dipinge se stesso per tutta la vita, riproduce una litografia sia durante la malattia, che dopo registrando le conseguenze a livello fisico mentre si osserva lo specchio nella sua casa di Ekely: la resa dei suoi lineamenti in caratteri cifrati la bocca semiaperta la vernice che cola dalla barba suggeriscono il suo esaurimento psichico oltre che fisico la malattia che non crea figura l’energica stesura della pittura dimostra la sua voglia di creare.

Senza paura e malattia la mia vita sarebbe una barca senza remi.

Morte al timone

Il grido interiore di Munch a Palazzo Reale a Milano (piazza del Duomo 12) dal 14 settembre 2024 al 26 gennaio 2025.
Biglietti: intero 15 euro (open 17 euro); ridotto 13 euro. Orari: martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10.00-19.30; giovedì 10.00-22.30; lunedì chiuso. La biglietteria e l’ingresso chiudono un’ora prima. Clicca qui per gli eventi collaterali in occasione della mostra.

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