Partiamo da Neruda, e vediamo dove ci porta

anice
zuk

Zuk

L’aura

Oggi a te.

Non a caso, l’inizio di una poesia di Neruda.

Sei lunga come il corpo del Cile, e delicata come un fiore d’anice…

Hoy a ti: larga eres como el cuerpo de Chile,

y delicada como un flor de anìs,…

Ogni giorno Matilde.

Cada dia Matilde.

Cada dia, Laura.

Per il tuo blog, per l’uso che vuoi farne.

A te.

Ma, vado di getto.

Come esce, esce.

Non sarà come la spesa di un vegano, meditata e faticosa, ma per fortuna fare la spesa è un’arte, sì, ma fino a un certo punto.

Scrivere, può essere una dote.

Non lo getterai, ma se vuoi, gettalo.

Pubblico o privato.

Per te.

Vediamo cosa succede.

Si parte.

Penso al tuo blog pensando a te e per farti un regalo, te l’ho appena promesso al telefono, e poiché soprattutto è scrivere, anche tu asserisci essere ciò che meglio mi riesce.

Anzi, lo giuri.

Allora: alimentandoci di noi, vediamo un po’…

Beh, Neruda: o no?

Conosci qualcosa di meglio?

Partiamo da Neruda, e vediamo dove ci porta.

In porti sereni, di sicuro.

Che abbia attinenza con la tavola.

Mangiare bene vivere bene.

L’anice, diceva.

L’anice…forte!

La sambuca!

Nel caffè.

L’anice forte essendo invece quel liquore ancora più intenso, molto meno popolare (inteso come di massa, nascosta la bottiglia tra le file di amari sui banconi dei bar), più diffuso, quello da tornei di scopone scientifico o da tresette nei peggiori bar di Brancaccio o Niguarda.

Anice forte e le Esportazione senza filtro, il classico di un signore che conosco da quando ero piccino, ormai sulla 75, un recente e riuscito trapianto di fegato, ma smettere di fumare, lui, non ancora; dunque, mai.

Dal bere anice forte, da quello sì, è guarito.

Un buon compromesso?

Beh, sì, dico di sì.

Rispetta il fegato di colui che l’aveva prima di donarlo a lui.

Un bel gesto.

Una metafora, un metodo per dire, anche se non si sa scrivere bene, che siamo relativisti, sì, ma non tutto è sempre relativo.

La libertà sacra che ha ciascuno di scegliere salami da maiali scuoiati in batteria, o la fatica di un metodo poco pubblicizzato e persino, alla lunga, colto, colto come una verdura che si fatica a coltivare, è relativa appunto a ciascuno ma…rispettarsi un poco, rispettare i doni…:si può scrivere anche senza saperlo fare, anche con le parole silenziose che altri metteranno su carta, si può smettere con l’anìz fuerte e così rispettare un fegato donato al posto del tuo marcio di alcool.

Sono indulgente con questa valle di lacrime, amica cara mia, come tu sai.

Sai con chi sono spietato, invece, quando si parla di salute e stile di vita?

Lo sono con chi, quando arriva vicino vicino alla fine, non ne trae nessun insegnamento, ma nemmeno uno.

Non per diventare chissà quale messia di chissà quali rivoluzioni, ma perlomeno per scrivere (o scrivere attraverso un gesto) una parola per dire che a qualcosa, quella paura, è servita. E per mettere quella parola a disposizione. Quello, lo stai facendo tu.

Eccome! E bene!

E non ne avevo dubbi.

Poiché il maiale non lo sa, in fondo, cosa ha scampato o a cosa va incontro.

Quando Heidi salva Bella, Heidi salva un pezzo della sua umanità che lotta per cambiare una goccia nel mare. Bella fa sempre beeeeee, invece.

Tenero cucciolo, ma anche tenera carne, per noi magnabestie.

Eppure, anche io che mangio agnelli pure il venerdì santo, piango ancora oggi, a quarant’anni, per Heidi che salva Bella.

Brindo a te, e a Bella, hoy!

(Ho brindato, e raramente brindo alla morte di qualcuno,  solo alla fine di quel tizio che andava in giro col furgoncino, e il berrettino, pagato miliardi, per dire lovelovelove alla gente, e umiliare (si era all’inizio di un percorso “culturale” che oggi fa cucinare stinchi di maiale ai bambini in tv) i sentimenti veri, quelli di Heidi, quelli che lui fingeva di avere, e guardava la telecamera cogli occhioni blu, per ipnotizzare le nonne, e nei suoi occhi pensava al bancomat. Sia chiaro, non ero felice quando è stato male la prima volta. Poveretto, che tortura. Il cuore, metafora e rima classica dell’amore non lovelove, lo aveva straziato. Le nonne inchiodate ai notiziari, incapaci di parlare ai primi amori dei loro nipoti lì, ad un passo da loro, disperate per un cretino che si credeva importante. Si salvò. Ne gioii. Attesi con fiducia. Sono indulgente. Pochi mesi dopo, ritornò: un furgoncino, un berrettino, lovelovelove: tutto daccapo, tutto come se non fosse successo niente.  Senza più voce, gli occhi spenti, e fu la mia personale condanna. Pensavo: tu non sei Enzo Tortora, che, liberato dalla sua gabbia, aveva il diritto di fare ancora dei sentimenti che aveva mosso l’uso nobile, popolare e delicato come quasi un fiore di anice, che faceva prima di quell’arresto che lo uccise di cancro, lui non fumatore, lui non ansioso, lui che beveva poco e mangiava con moderazione. Tu sei, eri, piuttosto una Castagna, non hai ali, nemmeno ali di tortora, cadi sulle teste innocenti dal cielo, e l’azzurro dei tuoi occhi non vale la pesantezza del frutto che hai nel cognome, frutto di torte che non sono di cachi, e che per giorni infatti non cachi; frutto da piazza Duomo fuori stagione, così raro da trovarsi non in Duomo ma almeno  buono, e neppure nonna nel latte lo rendeva troppo morbido, mentre me lo preparava guardando il tiggì in attesa di buone novelle dal tuo letto di cuore in pericolo. Frutto spesso scavato, la più bella e la più buona castagna ti illude ed ecco invece il verme, il buco, il bruco. E non pungersi di ricci in quei boschi di autunno e primi mattini freddi, in cui compari un mese, e poi son caldarroste di Brancaccio e di abusivi con licenza. Transgeniche castagne, miliardari cui perdono la prima colpa, ma almeno avessi fatto un programma sul cuore, sul cancro, sull’aorta, e allora avrei pianto per te, che a te non interessa a come vedi, ancora oggi a me dispiace. Tu, se non impari a seguir virtute, sei invece, per me, come un maiale da batteria, e io certo non sarò la tua Heidi. Le lacrime piuttosto le riservo ai bambini teneri come una capretta innocente, tu sei un vecchio montone e non hai da dar più niente. Lovelovelove, un cazzo. Le lacrime dei tuoi tamarri da tradimento non perdonato le metto tutte per bagnarti la tomba del niente che sei.

Ma torniamo al love vero, dopo avere sistemato la rabbia di saperti delicata come me, e viva nel tuo sforzo di insegnarci come rispettare non già il secondo, ma il primo cuore che abbiamo.

Torniamo, oggi a te.

Tu, amica mia, che non hai mai bevuto una coca-cola, e non conosci il sapore del prosciutto che tanto mi piace, quante cose ci stai insegnando, parlando con la tua mente del tuo corpo, e alla nostra mente dei nostri corpi, e di cosa ci mettiamo, e di come la prima influenza le cose che facciamo al secondo, e viceversa.

E allora, hoy a ti.

Il fiore dell’anice io lo conosco solo da come suona nella poesia del grande Pablo, e nell’italiano che, per nostra fortuna di latini, e di tanto conquistatori quanto conquistati dalla Spagna, produce quasi per miracolo i medesimi effetti delicati che stanno tutti riassumibili nel suono che ci produce l’aggettivo…delicato.

Oggi a te, hoy a ti.

Oggi a te.

Delicada eres, sei delicata.

Come como.

el flor.

il fiore.

Di anice.

D’anìz.

D’anis.

D’anice.

D’anice.

D’.

La cattiva cultura e i peggiori bar mi fanno pensare all’anice nell’unico altro modo attraverso il quale la conosco, ancora, oltre Pablo, e cioè in bicchieri versati senza cura o in correzioni invero poco corrette di un caffè.

Il gusto forte che ti fa(rebbe) maschio, il profumo che inonda altro profumo.

Il caffè, semplicemente scompare.

Due e cinquanta, grazie.

Liquori potenti, effetti brevi, e soddisfazione di avere ancora qualcosa che ci renda incomprensibili alle femmine.

Il piccante, il liquore forte, la guida sportiva.

Siamo ridotti male.

L’anice forte, le sigarette puzzolenti.

Ma…

Oggi a te.

Tu non sei altro che un delicato fiore d’anice, da oggi, con il tuo sorriso e la tua forza e il tuo blog, in cui c’è tutta te stessa, e talvolta qualche tuo amico.

Sei il profumo dell’anice nel suo fiore.

Da oggi quando penserò a te, e ti penserò anche quando non ci sarò più, sarai, tu oltre a Neruda che l’ha scritto e l’ha messo tra le mie narici con l’odore evocativo delle parole, oltre ai miei caffè senza costrutto, tu sarai prima di Neruda, e del caffè, il profumo dell’anice nel suo fiore.

Se serve a ripeterlo:

sei il profumo dell’anice nel suo fiore.

Da oggi sei un delicato fiore di anice, l’esempio nei gesti e nelle parole di come ci si nutre e ci si cura, e di come si reagisce a ciò che sappiamo può succedere, il raffreddore che tutti possiamo prendere.

Pensa, il grande Tessa cui mi sto ispirando per il mio primo libro (sfruttiamo gli spazi altrui per il nostro markenting, insegna la cultura lovelovelove), è morto per le conseguenze di un ascesso a un dente.

A 53 anni.

Uno dei suoi racconti più divertenti, cioè uno qualunque, narra di come la mamma, lui piccolo, un giorno gli comprò un libro che a lui tanto piacque, come premio per essere stato mansueto e bravo dal dentista, cosa che raramente gli capitava.

Come dargli torto.

La beffa del dolore a caso così caro a Ivano Fossati, ognuno col suo, che ci porterà via come fiori indifesi, l’avrebbe fatto sorridere, oso affermare, avendo capito, da come scrive, come l’avrebbe presa, se avesse potuto mai sapere.

Il privilegio di non sapere da dove arriverà quel vento, è il privilegio che gli scrittori hanno in particolare, rispetto a noi mortali; perché, anche senza saperlo, possono scrivere talvolta cose così banali, come il dentista da piccino e il libro premio (e il libro è il protagonista del racconto, non il dente), e intanto scrivono dell’unica cosa che non potranno mai raccontare, dell’unica cosa che ignorano davvero,  e cioè della loro morte.

Dunque, alimentarmente: mangiare bene, ricordate, allontana il dentista! E una morte surreale come quella di Delio Tessa, scrittore e poeta di Milano.

Fossi uno scrittore, e nato un secolo prima di Tessa, certo io sarei più fortunato a parti invertite, ricevendo dalla sua penna le parole meno modeste che dedico oggi a te tramite lui, ma insomma Delio Tessa nacque nel 1886, io sono in po’ più giovane. Da me, hoy a ti, io oggi ti faccio in vece sua l’accenno a come quel fiore che scriveva come nessuno ha descritto con piacere ciò che se avesse saputo gli avrebbe strappato un sorriso sarcastico e una alzata di spalle fatalistica e serena, amara solo come un ottimo caffè con pochissimo zucchero, e senza sambuca, avesse saputo da dove sarebbe venuto il suo ultimo vento, il suo dolore a caso, la forza finale del caso sul suo stelo di fiore delicato.

Siamo tutti delicati fiori di anice, noi col privilegio di conoscerci e poterci stringere, gli steli non camminando. Siamo come quegli eserciti di pesciolini che fanno gruppo per disorientare gli squali.

E tu sei il fiore di anice con cui ho bevuto sambuca e letto Neruda, e li riassumi e li concludi insieme, e infatti sei lunga come il Cile sì, ma su un mappamondo da cameretta. Ti chiamo Nana e non ti offendi, e perché avresti potuto mai, tu, offenderti, tu sorriso da sicuro fallimento per ogni dentista?

Quando sei venuta ai concerti e ovunque, spesso hai detto per prima cosa, prima ancora degli abbracci,  che puzzavi di chilometri percorsi a piedi (come Forrest Gump li faceva correndo (ma mai di salame puzzavi)).

In realtà, se ci penso bene, lunga come il Cile non eri e non sei e non serve che tu lo sia, per la mia prosa che ti pensa, ma eri e sei un fiore di anice, come me, per me, per la mia prosa di stasera nel mio cuore e da domani lettera d’amicizia per te.

Sto per finire.

Ancora una cosa.

Scrivi troppo bene perché io non possa sapere che il mio vento che non conosco posso affidarlo oggi a te, alle tue parole di domani, che saprebbero scovare il mio sarcasmo tessiano, la mia alzata di spalle presunta, tra le cose belle e meno belle che ho scritto e fatto, quando il mio vento, ché io non posso, ma tu lo saprai, di dove è venuto, analizzerai per benino per farmi magari una dedica, nel 2053.

(non correggere il di dove, se lo pubblichi in pagina, perché è voluto. E nemmeno sta parentesi, tutta compresa)

Ho appena smesso di fumare, sto smettendo, e il mio compromesso, il mio fegato rispettato è, all’opposto di quel signore, questa birra discreta, italiana anche se si è scaldata, qui fianco al pc.

Tu invece che hai smesso di fumare, e che sei passata a una vita esemplare, tu che comunque eri un esempio per me, a spiegarci come nutrire il corpo, quelle cose dell’alimentazione che da sempre ignoro, perché, come vedi, continuo a ignorarle ma le strade che scegliamo, noi pesciolini uguali uguali, per fare branco e disorientare gli squali, sono imprevedibili come passare da oggi per te a un titolo di una poesia, e dall’anice raccontare di denti da curare, di denti di squali cui sfuggire, di agnelli di tortore e castagne, e del rispetto che dobbiamo al caffè in purezza.

Non credevo di riuscire a parlare sia a te che alla mia piccola platea, e alla tua più grande (ed esigente), e persino di maledire qualche correzione del passato, tutto insieme, appassionatamente come una amicizia vera.

Ci si corregge anche così.

Sei stata lo spunto per riconoscermi il vegetariano che non credevo di essere stato mai, e tu lo sei ma, almeno per Bella, anch’io lo sono e lo fui; sei stata la scusa per fare pubblico onore a un signore che onora il suo fegato nuovo in premio regalo.

Pure, la distruzione della castagna che in verità mi piace parecchio, e forse anche il bruco nel buco, mi piace parecchio mangiar!

Questo regalo sei stato, stasera, questo regalo è per te, a ti, fiore d’anice delicato, profumo di camminate,  e di tante storie che l’uno dell’altra abbiamo ancora tanto tempo, e vento che non fa male, per raccontarle insieme.

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