Addio a Ermanno Olmi de L’albero degli zoccoli, affresco della spietatezza del mondo contadino

Do po la recente scomparsa di Vittorio Taviani, il cinema italiano perde un altro dei suoi più grandi protagonisti: il 7 maggio 2018 Ermanno Olmi è deceduto dopo una lunga malattia. E abbiamo deciso di celebrarlo rivedendo il suo film più conosciuto: L’albero degli zoccoli, che gli valse la Palma d’Oro al 31mo Festival di Cannes nel 1978. Il mio timore è che oggi risultasse fortemente anacronistico, visto che il mondo rurale che rappresenta è ormai scomparso o comunque si è ampiamente modificato.  Certo L’albero degli zoccoli è lontanissimo dai nostri tempi, ma forte di un sincero e genuino realismo, riesce ancora a parlare all’uomo del XXI secolo. Un realismo cinematografico che deriva da quello pittorico tipico della Lombardia, che all’autore diede i natali e i luoghi per il suo film, attento si particolari gustosi. Un realismo quello de L’albero degli zoccoli che non è soltanto visivo, ma anche narrativo, raccontando il mondo rurale e persino sonoro. Infatti il film alterna filastrocche, detti e canti popolari alle sinfonie e arie dei grandi, da Johann Sebastian Bach a Mozart, di cui si può sentire anche Metà di voi qui vadano del Don Giovanni, a sublimare la bellezza e la genuinità di quel mondo primordiale che di vede mosso dal vento, opaco nella foschia, freddo, ocra e rosso per l’inverno. E quanto è crudele il mondo rurale con le bestie?anche per il peggior nemico dei vegani la scena del maiale è terribile. Anche la sofferenza della mucca per chi nutrisse un po’ di empatia, rende felici che quel mondo sia finito. Ora abbiamo gli allevamenti intensivi che sono molto peggio, ma tanti hanno sviluppato una coscienza animalista. È un mondo tutto concretezza e cattolicesimo: la povertà spingerebbe da un lato a togliere i figli, in particolare le ultime nate – come suggerisce monsignore tentatore impietoso. Ma il secondogenito non ci sta e gli scambi di bambini restano priorità delle suore, che appioppano un neonato a una giovane coppia fresca di nozze, perché la prole è anche manodopera. È un mondo dove l’unità di misura è la famiglia. Le donne dono madri o figlie, brutte, sporche sudate, baffute e sempre alle prese con le faccende domestiche. Anche Olmi, come Giovanni Segantini, dipinge Le due madri, giustapponendo la mamma del film alla mucca malata al buio della stalla, alla fioca luce della lampada. Le due sono strette da simile amor filiale, ma anche in questo caso manca completamente sentimenti di compassione per la bestia, perché il duro e povero mondo contadino lo ignora del tutto. La sorte della seconda madre dipende soltanto dalla rendita perdibile, e da difendere a costo di cedere a superszioni tutte cattoliche, che faranno guarire la mucca grazie all’acqua benedetta. Gli uomini sono capofamiglia che tutto farebbero per la famiglia, anche sbagliare. Le loro fatiche nei campi si leggono sulle vesti stracciate e bucate, povere e miserabili, lise. Il nonno cervello fino che si applica per far maturare prima degli altri i suoi pomodori, ma si fa fregare dal somaro la moneta che gli nasconde nello zoccolo. E poi c’è il papà che per il figlio farebbe di tutto, anche cedere all’errore. Che il padrone spietato non perdona.

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