L’industria agricola inquina aria e acqua

Domani, 5 giugno si festeggia la Giornata internazionale dell’Ambiente. Argomento sempre più pressante negli ultimi mesi grazie a Greta Thunberg, che ha risvegliato  tanti, troppi cui non è mai importato niente e di colpo hanno preso a cuore l’argomento. Alimentarmente  parla di ambiente dai suoi esordi.

Con la stagione calda, io che già seguo sin dall’infanzia un’alimentazione per lo più veg, ancora in modo più intransigente dopo che mi sono ammalata, pur aprendomi al pesce. E ho partecipato e partecipo a tanti festival veg, sentito convegni in merito, mi sono divertita anche a tutte le battute contro i poveri veg e ho passato in rassegna tutti i principali ristoranti della mia città che offrono piatti vegetariani o veg; ho persino seguito un corso di cucina macrobiotica. Sto imparando a scegliere frutta e verdura fresche, se non a km0, quanto meno locali e di stagione. E ho iniziato a pensare che anche la natura inquina la natura, grazie allo zampino dell’uomo. Basterebbe, infatti, che la richiesta di carne e prodotti caseari diminuisse perché proporzionalmente si riducesse anche il numero di allevamenti, responsabili dell’immissione nell’atmosfera di notevoli quantità di gas serra. Secondo un recente studio condotto dai ricercatori dell’Università di Siena, in collaborazione con la Stanford University e l’Università della California, il 10% delle emissioni di gas serra globale risulta emesso dal bestiame. Le emissioni del bestiame provengono dai processi digestivi che generano grandi quantitativi di metano e dalla decomposizione del letame, responsabile dell’immissione nell’atmosfera di ingenti quantità di protossido di azoto. Gli scienziati hanno analizzato 11 diverse specie da allevamento in 237 nazioni, scoprendo che dal 1961 al 2010 si è registrato un incremento delle emissioni del bestiame di ben il 51%, per lo più nei Paesi industrializzati. I bovini sono i pezzi di bestiame maggiormente inquinanti, perché responsabili del 74% delle emissioni. Seguono le pecore, che producono il 9% delle emissioni, poi i  bufali, a quota 7%, seguiti dai maiali al 5% e infine dalle capre al 4%. Dunque, si prendono tanto in giro i vegani, ma loro ben sanno che è preferibile optare per una dieta mediterranea, a ridotto consumo di carne e basata prevalentemente su carboidrati, frutta e verdure, per mitigare il riscaldamento globale. Eppure non si promuove nessuna riduzione degli allevamenti intensivi, anzi si assiste all’intensificazione della produzione da allevamento – gli animali da allevamento sono più che triplicati dal 1970 – ha portato all’emergere di una nuova classe di inquinanti: antibiotici, vaccini e promotori ormonali della crescita, i quali, attraverso l’acqua, passano dagli allevamenti negli ecosistemi e nell’acqua che beviamo. E l’inquinamento idrico dovuto a materiale organico originato negli allevamenti è oggi di gran lunga più diffuso che l’inquinamento organico legato alle aree urbane. Così anche l’agricoltura va sotto inchiesta.
Infatti, Fao, nel mese di giugno, ha lanciato, nel rapporto “More People, More Food, Worse Water? A Global Review of Water Pollution from Agriculture”  un altro allarme, meno noto: l’inquinamento delle risorse idriche legato a pratiche agricole non sostenibili rappresenta un rischio serio per la salute umana e per gli ecosistemi del pianeta. L’agricoltura delle industrie, infatti, “è responsabile per il riversamento di grandi quantità di prodotti agro-chimici, materiale organico, sedimenti e elementi salini nelle riserve d’acqua”, si legge nel rapporto.
L’agricoltura è il maggior produttore di acque reflue, in termini di volume, mentre l’allevamento genera molti più escrementi degli umani. Con l’aumento dell’utilizzo delle terre, i paesi hanno aumentato notevolmente l’utilizzo di pesticidi sintetici, fertilizzanti e altri input” scrivono Eduardo Mansur, Direttore della Divisione FAO Terra e Acqua e Claudia Sadoff, direttore generale del Iwmi, nell’introduzione al rapporto. “Mentre questi input hanno contribuito a rafforzare la produzione alimentare, hanno anche provocato minacce ambientali e potenziali problemi per la salute umana”.
Gli inquinanti agricoli che destano maggiore preoccupazione per la salute umana sono i patogeni derivanti dall’allevamento, i pesticidi, i nitrati nelle falde acquifere, tracce di elementi metallici e nuovi inquinanti, come i geni resistenti agli antibiotici e agli antimicrobici nelle feci degli animali da allevamento.
Il boom della produttività agricola che è seguito alla seconda guerra mondiale è stato ottenuto in larga parte attraverso l’uso intenso di input come pesticidi e fertilizzanti chimici.
Dal 1960 l’uso di fertilizzanti minerali è cresciuto di dieci volte, mentre dal 1970 le vendite globali di pesticidi sono aumentate da circa un miliardo di dollari a 35 miliardi di dollari l’anno.
Il modo migliore di mitigare la pressione sugli ecosistemi idrici e sulle ecologie rurali è limitare la trasmissione di inquinanti alle fonti o intercettarli prima che raggiungano ecosistemi vulnerabili.

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