Coronavirus spiegato da Fondazione Veronesi
Non avevo assolutamente intenzione di scrivere del coronavirus, soprattutto in questo momento. Eppure io risiedo a Milano, dove la Regione ha sospeso ogni attività e, volente o nolente, il contagio da coronavirus di fatto è universale per la psicosi che si è creata. E poi sono bloccata in casa, dal momento che hanno chiuso tutte le attività che contemplano aggregazione, salvo i luoghi di lavoro, perché qui si lavora sempre. Palestra, danzaterapia, soul collage, cinema Beltrade e tutte le altre attività ricreative che seguo con passsione, ma anche quelle più legate alla professione, come conferenze stampa, presentazioni, corsi d’aggiornamento per i giornalisti, tutto sospeso fino a data da destinarsi. Persino il mercato – dove compro tutto fresco e biologico – da sabato non potrà svolgersi. E per una come me che è iperattiva l’apatia coatta abbatte l’umore e sconforta. Allora cerco di stare sul pezzo per capire il prima possibile quando si tornerà alla vita normale qui in Lombardia, senza mai venire meno al senso di responsabilità verso la società, pur prendendomi qualche libertà, divertendomi a leggere tweet derisori i più paranoici, oppure sciacallando sul ricoverato all’ospedale San Raffaele, perché, va da sé, che in una città dove sembra di girare per l’apocalisse di Interceptor o Ken Shiro, con avvisi alla clientela che da un lato intendono rassicurare che il personale è ancora tutto su questa terra, dall’altro che con rammarico si deve tenere chiusi per ordinanza ministeriale, sapere che un malato di Coronavirus è ricoverato al San Raffaele significa che quell’ospedale sarà vuoto o avrà ricevuto innumerevoli disdette che potrebbero farti balzare avanti con tutti gli appuntamenti per le visite che devi svolgere, ma che hanno fissato anche a settembre, allora io approfitto cinicamente dei paranoici e cerco di scoprire se riesco ad anticipare gli appuntamenti: mai successo di non scorrere l’agenda quasi fino alle sue ultime pagine.
Chi non è mascherato da bandito o nascosto dietro cappotto e sciarpa-burka che rende invisibili, si traveste da epidemiologo o infettivologo. Ogni tanto spunta pure qualche virologo, comunque tutti medici! L’aspetto più divertente è che sull’apocalisse scende pioggia radioattiva di vocali (come se fossero presi in diretta durante fake-conferenze, per un pubblico immaginario) con le indicazioni mediche cui attenersi. Mi immagino Alessandro Manzoni a trascriverli tutti, aiutandosi con Dragon, per accorgersi presto che ognuno nega il precedente poco prima promulgato tra tante rassicurazioni che sì, le trombe degli angeli squilleranno presto a risvegliare un’orda di zombie dai loro sepolcri per subire il giudizio finale.
Possiedo tutte le caratteristiche per prendere questo germe: sono immunodepressa, vivo in una zona multietnica con una numerosa comunità cinese, sono in cura all’ospedale San Raffaele, mio padre lavora nei pressi di CasalPusterlengo, dove però non si inoltra da venerdì scorso, dopo che il suo amico, dottore reale e non in maschera gli ha detto che non deve assolutamente andare se non altro per tutelare me, che sono pesantemente immunodepressa. E soprattutto terrorizzato dalle minacce di mia mamma, vittima della psicosi collettiva. Tuttavia, non mi servono le raccomandazioni di veri e fake-medici per lavarmi spesso le mani, perché io lo faccio da sempre, anzi mi sorprende sia necessario caldeggiare questo gesto assolutamente ovvio, almeno per me, che non soltanto lavo sempre con sapone liquido antibatterico o di marsiglia – eccellente disinfettante, ma anche pulisco periodicamente con l’alcol o l’ammoniaca le maniglie delle porte con i miei migliori amici: Lisoform, amuchina, napisan, sapone di marsiglia e flaconi formato gigante di antibatterici, incluso l’aceto (antimicotico per eccellenza) per lavarmi i piedi che poi asciugo con il phon. Mi avrà salvata questa mia malattia per l’igienismo dal coronavirus? La terza deceduta in Italia (all’ospedale di Crema) per questo germe era anche malata di cancro. Non dovrei sottovalutarlo, indi per cui mi sono informata in merito su un canale che reputo autorevole e affidabile sulle questioni sanitarie: il “magazine della Fondazione Veronesi”. Il primo titolo Il coronavirus non è l’influenza, risponde a una domanda che ho letto ripetutamente su Facebook, in questi giorni diventato “Lancet” e fondazione di ricerca tra le più autorevoli: “Se è vero (come sembrerebbe) che si tratti di un’influenza leggermente più aggressiva, con una mortalità più incisiva “solo” in persone anziane e/o già debilitate, perché sono state prese precauzioni a livello mondiale senza precedenti?”. Pierluigi Lopalco, professore di Igiene dell’Università di Pisa risponde: “A differenza dell’influenza stagionale, un virus noto che cambia di poco le sue caratteristiche di anno in anno, il coronavirus è completamente nuovo. Questo significa due cose: nessun essere umano è immune; per questo virus non esiste ancora un vaccino e nemmeno un farmaco. Non solo, «a differenza dell’influenza stagionale, il coronavirus – se nell’80% dei casi si manifesta con sintomi blandi e gestibili- nel 20% delle persone causa seri problemi respiratori tali da richiedere il ricovero (il virus agisce sulle vie aeree più profonde). Nel 5% dei casi si arriva addirittura alla terapia intensiva”.
E continua con le raccomandazioni per gli immunodepressi e non: “Il coronavirus non è un virus influenzale e lo si vede. Produce casi più gravi, in maniera più frequente, su persone che non hanno nessuna condizione di debolezza di salute”. Da qui la raccomandazione del vero medico, amico di mio papà. Di conseguenza, “Non va generato il panico ma neppure banalizzato il pericolo. Certo, non è la Sars che aveva un tasso di mortalità molto alto”, aggiunge l’esperto.
E Fondazione Veronesi risponde anche alla seconda parte del post, ossia sul perché si prendano smisurate misure di contenimento: “L’obiettivo è chiaro: rallentare e circoscrivere il più possibile la circolazione del virus“. È il contagio a costituire il vero pericolo. Perché – come spiega Ilaria Capua in un editoriale su “La Stampa”: “Nell’ipotesi che si dovesse ammalare (o mettere in quarantena) il 20% della popolazione italiana, si bloccherebbero i servizi, si intaserebbero gli ospedali e si darebbe un grosso colpo alla produttività del Paese”. Ecco dunque il senso delle misure restrittive. I risultati cominceremo a vederli tra 10-15 giorni”.