Morto Flavio Bucci de”La proprietà non è più un furto”

Pur conoscendo a memoria il miglior film in cui Flavio Bucci è stato protagonista, non ho voluto scrivere nulla della sua scomparsa dell’attore torinese in data 18 febbraio 2020, finché non ho potuto rivederlo in televisione, per rinfrescarmi la memoria su un film molto difficile. Conosco a memoria La proprietà non è più un furto perché sul regista di questo film – Elio Petri – ho fatto la tesi di laurea, tuttavia, come dicevo il film è decisamente complesso.
Petri spiega che La proprietà non è più un furto prosegue il discorso iniziato con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso – con cui Petri ha lanciato Bucci, descrivendo un’altra porta chiusa. Ne La proprietà non è più un furto il regista approda a un mondo senza scampo rappresentato attraverso una tragica disperazione che negli altri due film viene soltanto sfiorata e non urlata, come in questo. “La proprietà – spiega il regista al critico cinematografico Jean Antoine Gilinon può dare nient’altro che malattia e malati, non può che essere l’emblema di tutte le serie di frustrazioni sessuali che tengono l’uomo prigioniero. È la chiave di questa specie di cintura di castità nella quale la società capitalista ha imprigionato l’uomo”. E la malattia di Total, interpretato da Bucci, è la schizzofrenia, che ben ritrae  nei quadri espressionisti che scorrono nella sigla iniziale tutto il cast. Sono opere di Renzo Vespignani, amico d’infanzia di Petri, pittore figurativo, incline all’espressionismo, per cui il pittore romano ritrae Total-Bucci emaciato, segnato da profonde occhiaia; desquamazione cutanea e livor mortis che mostrano esteriormente il suo malessere interiore: Total – impiegato di banca – non riesce ad accettare il compromesso con il denaro al punto da soffrire di un’allergia ai soldi che non può nemmeno toccare, pena un’orticaria da scorticamento. In scena è la schizofrenia dell’uomo contemporaneo spudoratamente rappresentata sul palco da Mario Scaccia che “mostra una doppia faccia secondo un asse perpendicolare che oppone un lato femminile e uno maschile. L’uomo alienato, diviso, scollato che ci guarda all’improvviso, che è il cuore dell’opera di Petri. Anche il padre di Total magistralmente interpretato da Salvo Randone, che è il mio attore preferito, svela la sua doppia natura di padre falsamente intransigente contro il furto che alla fine diventa più ladro del figlio, non riuscendo a fare a meno di tutte le prelibatezze che Total ora gli può garantire. E questa doppiezza paterna si esprime in un magnifico dialogo tra Randone e Bucci, che offre la lettura del film sulla dicotomia essere e avere, dove, in un delirio di declinazioni verbali, l’essere è annullato nell’avere:
Total: “Sai che non mi ricordo più com’è quella parola…che indica quando si possiede una cosa. Un figlio, una casa, un terreno, un’automobile, una donna”.
Il padre lo interrompe: “Verbo essere, ausiliario: io sono, tu sei, egli è, io ero,…ecco io ero, no, no, no, no. Io ebbi. Ecco, ebbi, ebbi, ebbimo, ebbimo, aveste, avessero, avettero, avemmo, avendo avuto, avendo avuto, avettero, essendo, voce del verbo avendo”.
Total: “Avere, voce del verbo avere”.
Il padre prosegue: “Oh, sì, sì…e questo denota un possedimento di cose (consultando il dizionario). Ecco , sì, avere, avere può essere anche semplice o coniugato…Sicuro, io abbo, io aggio, lui have, egli have, noi aggiamo, noi avemo…”
Total: “E no! per la madonna, noi non avemo una cippa! Io non ho, tu non hai…egli ha”. E non avendo una cippa, Total si prende tutte le proprietà più identitarie di un macellaio (Ugo Tognazzi ), simbolo del capitalismo e personificazione della proprietà e dell’accumulazione capitalista che non accetta alcun tentativo di scalfittura del proprio potere, che coincide con la proprietà.

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