È morto Ulay, performer con Abramovic

È deceduto Ulay all’età di 76 anni. Forse questo nome vi dice poco, perché l’artista lavorava in coppia con un nome che getterebbe il buio su qualsiasi altro: Marina Abramovic. L’ho vista una volta in una perfomance al Pac. Non ho mai subito tanta soggezione in vita mia. La maggior parte di noi giornalisti stava a debita distanza al piano superiore. Detesto le restrizioni, però quella volta le accettai e continuavo a guardare come ipnotizzata la performance. La loro arte non ha prodotto quadri, statue, film, ma performance. Cosa sia una performance lo spiega chiaramente la sacerdotessa dell’arte: “Perfomance è una costruzione fisica e mentale che l’interprete realizza in un tempo specifico, in uno spazio di fronte a un pubblico e poi accade il dialogo con l’energia. Il pubblico e l’interprete realizzano insieme il pezzo. La differenza tra performance e teatro è enorme: nel teatro, un coltello non è un coltello e il sangue è soltanto ketchup; nella performance il sangue è materiale e la lametta o il coltello sono strumenti”. Quando parla della sue performance non può non parlare dell’incontro con Ulay ad Amsterdam. Una relazione di 12 anni amorosa, oltre che professionale, finita con la performance della Muraglia cinese, percorsa mano nella mano insieme per dirsi addio.

Al Pac, l’atmosfera era irreale: all’ingresso, ci fecero firmare un contratto, lasciare cellulare, i-pad e qualsiasi altro congegno tecnologico in un armadietto e iniziare a eseguire degli esercizi, guidati da un maestro coadiuvato da tre assistenti. Capisco subito che non vedrò una mostra classica lo si capisce all’arrivo. Il visitatore si trasforma per due ore e mezza in opera d’arte e insieme artista. Diventa, infatti, oggetto dell’azione di Marina Abramović, ma anche soggetto autore della performance. Oggetto perché espressione dei tre burattinai-assistenti della sacerdotessa dell’azione, che lo muovono a loro piacere ed eseguire quello che Abramovic desidera. Tutto in qualità di contraente che ha accettato di rinunciare alla tecnologia e alla propria identità, perduta per il camice bianco che cela le forme e che necessariamente si deve indossare «per – spiega Abramović – segnare la metamorfosi da spettatore a partecipante». «Se mi dai il tuo tempo – spiega Abramović – io ti darò un’esperienza». Sono questi i termini del contratto tra artista e spettatore. Ma Abramovic è sicuramente meglio conosciuta per le sue azioni con Ulay, con il quale ha costituito un coppia dell’arte e di vita indissolubile. Ulay incontra Marina nel 1976, quando è già un artista di 33 anni. La storia familiare dell’uomo è tragica: rimane prematuramente orfano durante la Seconda Guerra Mondiale. Lascia negli anni Sessanta la Germania, paese con il quale mantiene un rapporto conflittuale, una moglie e un bimbo piccolo e si trasferisce in Olanda. Qui si dà alla fotografia, con una fascinazione fortissima per le Polaroid, che diventa sempre più intimamente connessa con la performing art. Dopo l’esordio veneziano, Ulay e Marina diventano inseparabili anche se continuano a condurre l’attività artistica anche autonomamente. Quando ho letto la notizia della morte id Ulay, l’ho immaginato truccato per metà da donna, o meglio, come la Abramovic, e per metà maschio, non macho. Alle loro storiche performance, realizzate dai due tra gli anni ’70 e ’80, in 12 anni di sodalizio: i famosi Relation Works che turbarono anche l’Italia, esordendo insieme come coppia d’arte nel 1976, in seguito all’incontro al De Appel di Amsterdam, con Relation in Space, alla Biennale di Venezia (dove la Abramovic era stata invitata) di quell’anno. Quando si correvano o camminavano incontro l’un l’altro completamente nudi. Famosissima resta la performance Imponderabilia realizzata nel 1977 a Bologna presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna. I due, i corpi statuari e bellissimi, entrambi nudi, come nella statuaria classica, una carica di energia fortissima data dalla relazione intima e dalla complicità, si fronteggiano e fungono da stipiti della porta d’ingresso del museo. I visitatori, per entrare, devono incontrare i loro corpi, decidendo su quale strusciarsi. La performance venne interrotta dopo tre ore dall’arrivo della polizia. Del 1980 è Rest Energy: Marina offre il petto e tira l’arco con presa fallica, mentre Ulay tende la freccia: un discorso sulla resistenza e sulla fiducia. loro battiti accelerati sono amplificati in tutta la stanza. La tensione dell’arco a simboleggiare il loro rapporto. Ancora più nota è The artist in present del 2010 al MoMa di New York, in cui i due sono seduti faccia a faccia, o meglio occhi-occhi. Un’auto-citazione di Breathing In / Breathing Out (del 1977) nella quale i due rimangono bocca-bocca per venti minuti, respirando il respiro dell’altro, fino a spingere i loro corpi quasi a soffocare. Caddero a terra privi di sensi 17 minuti dopo l’inizio della performance, nell’intento di esplorare come un individuo possa assorbire, condizionare e distruggere la vita altrui. Al Moma, dopo tre giorni di sguardi imperturbabili con i visitatori sconosciuti, Abramovic incrocia gli occhi di Ulay, allora accenna un sorriso e bagna i suoi di lacrime. Poi rompe anche la ieracità del suo corpo per prendergli le braccis. L’ultima performance di Ulay è Project cancer, sulla patologia che gli viene diagnosticata nel 2011 e che lo ha spento nel marzo 2020. Project cancer è un documentario di Damjan Kozole, con il quale Ulay ha collaborato anche in altre occasioni. Si tratta di un altro esperimento sul proprio corpo, non di un Te Deum. Il Project Cancer, l’arte più in generale, gli salverà la vita. In esso, l’artista ripercorre i luoghi che hanno lasciato una traccia nella sua vita accompagnato da una troupe. “Nel picco della mia carriera ho trattato molto male il mio corpo con azioni masochistiche, auto-aggressive, ferendomi da solo. Tre anni fa ho scoperto di avere un cancro. Ma non aveva nulla a che fare col mio lavoro: le mie performances del passato, anzi, mi hanno insegnato che la mente deve essere più potente del corpo”, aveva raccontato a Elisa Grando de Il Piccolo di Trieste, nel 2014.

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