Il corpo e l’anima: Tutti i Rinascimento italiani al Castello Sforzesco
Non capirò mai perché la cultura venga così maltrattata nel nostro Paese. Ho scoperto della mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco fino al 24 ottobre 2021 due settimane prima che chiudesse, perché io non l’ho vista promossa in un cartellone pubblicitario, e l’invito stampa, e di conseguenza l’inaugurazione, è arrivato a fine luglio, quando tanti ritornano, tanti partono per le vacanze e non si può inaugurare una mostra così d’estate con il rischio che qualcuno se la perda. Anche perché è una mostra rara. Per due ragioni: è una mostra di scultura. Che, sebbene il sottotitolo precisi Da Donatello a Michelangelo, la storia della scultura la tradisce dalla nascita in epoca classica, quando la statuaria era idealizzata in corpi nudi e pose pudiche, la policromia, che la caratterizzava, l’ha fatta cadere il tempo, così come gli occhi di gemme preziose. Con riccioli di marmo ottenuti pazientemente e con fatica straordinaria con il trapano a mano. Ed è proprio così bello Antinoo (di I-II secolo circa) che apre l’esposizione all’ingresso del cortile dell’Elefante, così bello che comprendiamo perché l’imperatore Adriano se ne innamorò fino a divinizzarlo alla sua morte prematura. E così si avanza per le numerose battaglie su bronzo o marmo, esempi delle copie romane: naumachie, tauromachie, centauromachie qualche damnatio memoriae decapita qualcuno che proprio non meritava di essere ricordato a vita attraverso il volto di estrema somiglianza grazie ai livelli raggiunti dalla ritrattistica romana cosicché noi posteri non potremo conoscerlo, sino alle due Zuffe che ci introducono alla seconda ragione per cui questa mostra non va persa perché rara: l’espressionismo che si può permettere la scultura più della pittura. In entrambe le zuffe, lottatori combattono dolorosamente per uscire dal vortice di materia che le risucchia in sé, quasi soffocandole, per questo e per le urla dello strazio tutte le figure si contorcono e tengono la bocca spalancata in queste centauromachie, a differenza delle altre, bassorilievi di ante per sarcofaghi, sculture a tutto tondo. Accanto, tuttavia sono in mostra più classiche opere tipicamente rinascimentali, che scolpiscono ragione e pacatezza e preferisce il bassorilievo, come in Santa Brigida di Svezia riceve da Cristo la regola dell’Ordine, Agostino di Duccio sembra dipingere nel marmo la santa sovradimensionata rispetto alle altre esili figure sottili che le fanno da coorte, dai volti ovoidali e panneggi sinuosi che idealizzano il corpo umano. Lei ha la fronte alta come le muse espressioniste dei ferrraresi Eppure anche qui tra la pacatezza e la serenità tutta rinascimentale si avverte qualche cifra espressionista, non soltanto nel mancato rispetto delle regole della prospettiva che ingigantiscono questa Piccarda persino più del Cristo che personalmente le dà la regola, ma anche nel trono scorciato in modo errato sì da mostrare l’ornamento laterale di una sfinge che cita la Madonna al centro dell’altare del Santo di Donatello a Padova, realizzato circa 10 anni prima. Ma la serenità rinascimentale, che pure si respira, è soffocata dalle urla più forti che fanno sussultare. A partire dal bassorilievo della Crocifissione bronzeo, parzialmente dorato, realizzato da Donatello, che emette strilla dal basso verso il Cristo, pronto per essere portato nell’alto dei cieli da due angeli. Ai piedi della croce in tutto il loro strazio stanno le Vergini dolenti in silenzioso pianto contro i soldati affatto indifferenti. E ancora: “Come posso realizzare una scultura? Semplicemente rimuovendo dal blocco di marmo tutto ciò che non è necessario”.
Piangono e urlano Maria Maddalena e San Giovanni Evangelista con i lacrimoni di Giacomo Del Maino e Bernardino Butinone, in legno policromo. Accanto il Compianto sul Cristo morto di Bellona è in terracotta policroma, perfettamente conservato e memore da vicino del Compianto in terracotta di Agostino Fonduto in San Sepolcro e del più noto Compianto di Niccolò dell’Arca. In quest’opera di Angelo del Maino ogni volto è caratterizzato da un’espressione propria.
Maddalena, sin dai tempi del Cimabue non può che essere espressionista già da Masaccio che la fa macchia rossa nella Crocifissione oggi conservata al Museo di Capodimonte. Qui c’è quella lignea di Donatello, purtroppo non in nudo legno come quella custodita al Bargello – comunque citata dalla Maddalena iniziata Desiderio da Settignano nel 1459 e finita quarant’anni dopo da Giovanni di Andrea, rappresentata come una vecchia sofferente e alienata, vestita solo dei suoi capelli di legno. E c’è una testa di Maddalena a opera di Guido Mazzoni che urla senza vergogna di mostrare denti e lingua e richiama il da vicino le donne dolenti del Compianto di Niccolò dell’Arca.
E l’espressionismo compare anche nelle tante opere degli artisti dell’appennino tosco-emiliano, specialmente i ferraresi, che introducono la loro presenza con il Pestapepe di Francesco del Cossa, nella stessa sala delle battaglie, perché questo pestapepe sprigiona un’energia non minore a quella dei combattenti che lo circondano. I ferraresi rappresentano una scelta ancora più rara perché pochi nella storia dell’arte hanno accolto l’altro filone che corre accanto al Rinascimento tradizionale tutto pacatezza e serenità e cui questa mostra invece dà ampio spazio con diverse tele ferraresi. Ma ampio spazio è anche dato ad altri Rinascimenti, come quello lombardo, tra i più noti Bramante e Bramantino, per intenderci quello dell’uomo-rana scorciato come Cristo morto del Mantegna nella Madonna delle Torri, conservata nella Pinacoteca Ambrosiana, con il gusto per il caratteristico.
C’è in mostra Cristo alla colonna di Cristoforo Solari poco noto al pubblico perché custodito nell’inaccessibile sacrestia meridionale del Duomo, quindi praticamente invisibile, con il figlio di dio che sembra cedere sulle ginocchia perché pure Lui è Uomo. E soprattutto le lesene scolpite dal Bambaia per il Monumento funebre a Gaston de Foix che nella sua interezza si può vedere all’interno del museo civico del Castello. Che conduce fino alla fine della mostra nel salone che espone la Pietà Rondanini di Michelangelo, presente nel percorso espositivo anche con Luca Signorelli da cui lo scultore fiorentino trasse le muscolature toniche e per questo presente in mostra. C’è poi un piccolo Cupido, per quasi un secolo esposto in una fontana di un palazzo americano poi venduto alla Francia e negli anni Novanta del secolo scorso attribuito al Buonarroti. Ma è la Pietà Rondanini a chiudere il percorso espositivo de Il corpo e l’anima perché si vedono fusi insieme nel marmo i corpi del Cristo con quello della madre e le loro anime, anche della materia scultorea, perché Michelangelo per l’ultima e inarrivabile sua Pietà scolpì di nuovo un blocco di marmo che aveva già lavorato, come di mostrano gli arti preesistenti prestati ai nuovi. Questo requiem mostra nelle parti non finite come lo scultore lavorava cioè “a levare” . L’artista scrisse: “ Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura: basta, che venendo l’una e l’altra da una medesima intelligenza, cioè scultura e pittura, si può far fare loro una buona pace insieme, e lasciar tante dispute”.
Nelle ultime sale espositive però mai mancano riferimenti all’arte classica, come quelle dedicate allo Spinario e al Laocoonte.