Navigli di Milano: domani, oggi, ieri
Milano sull’acqua tra futuro, persente e passato
E se Milano emergesse di nuovo dalle sue acque? Quale potrebbe essere il suo futuro? È questo uno dei progetti del comune: riaprire la cerchia dei Navigli. Certo non sarebbe semplice soprattutto per due motivi. Il rifacimento della viabilità dai costi molto elevati e la confluenza della via della Martesana dalle acque estremamente pulite con quelle inquinate del fiume Seveso, per cui si è pensato a un tunnel.
Con l’arrivo della bella stagione, si possono fare tante gite, anche a riscoprire i luoghi dove si vive, troppo spesso dati per scontato. A Milano c’è la cerchia dei navigli a offrire una città da rivedere con gli occhi del passato. Il più bello e dal sapore ancora autentico è il Naviglio della Martesana, cui si può accedere da Cassin de’Pomm, un angolo di campagna in pieno traffico milanese, quello di via Melchiorre Gioia. Qui si può ben vedere e comprendere cos’ha provocato il fascismo a Milano. Era stato Ludovico il Moro a volerne finanziare la costruzione e se ne era fatto vanto ponendo una lapide sulla Conca di Viarenna dove dichiarava l’esenzione del dazio per la Fabbrica del Duomo “Ad Usum Fabricæ”, da cui ebbe origine l’espressione “a ufo” per indicare chi non paga. Invece negli anni Trenta del Novecento si vantò del contrario il senatore Giuseppe Capitani di Arzago, podestà di Milano VII E. F., cioè era fascista: “Basta con le barche viva l’automobile”.
Scavati e costruiti dall’uomo nel Medioevo per scopi difensivi, negli anni ’70 del Secolo Breve, il Naviglio Grande perde la nuova natura industriale, destinata a fare di Milano la grande metropoli che è oggi. Il cambiamento della zona è totale già negli anni Settanta, quando si perdono importanti posti di lavoro con la chiusura di due industrie simbolo della crescita di Milano tra Otto e Novecento: Richard Ginori a San Cristoforo e le cartiere Binda alla Conca Fallata. L’inizio dei lavori in corso sui navigli sono fotografati in numerose tavole di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone. Infatti, questo delicato pittore del Quattrocento, negli sfondi di molte delle sue tavole, dietro a santi e sacre famiglia fotografa piccole e delicate vedute con vie, case, torri, chiese, piazze e alzaie, spesso popolate da veloci figurine, e campagne.
Pare che il Bergognone avesse anche decorato le chiese vicine ai Navigli. Sicuramente per Santa Maria Rossa, canonica di Crescenzago, eretta sulle sponde del naviglio della Martesana, realizzò in stile tardogotico il Trittico (115 x 64; 121 x 47;120 x 47 cm.) con santa Agnese, Caterina d’Alessandria e Cecilia, dopo il furto del 1971, oggi conservato al Museo Diocesano.
Ritrae tre sorelle gemelle, le due con la palma del martirio omozigote. Dietro un altipiano, che piace immaginare del contado di Crescenzago che qui si estendeva ampiamente, perfino sino al comune di Greco, e del quale Santa Maria Rossa era canonica. Il contado aveva al suo interno altre due chiese “di colore”: Santa Maria Bianca a Casoretto e Santa Maria Nera, detta di Loreto, nell’attuale piazzale omonimo, demolita a fine Settecento. La più interna chiesa dei santi Re magi rimase abbandonata fino al 1977.
Dietro alcune pale del Bergognone il punto dei navigli ritratto si riconosce facilmente, in altre è verosimile. In ben due pale si seguono i cantieri del Naviglio Pavese. La Certosa di Pavia ancora in costruzione con tanto di ponteggi, per esempio, è descritta con estrema difficoltà ed è erroneamente collocata su un’altura alle spalle del Cristo porta croce e dei certosini, tavola oggi custodita ai musei civici di Pavia: e, si riconosce alle spalle della Madonna col bambino della National Gallery di Londra maestoso il bonario castello che ricorda i nobili esempi trecenteschi delle dimore viscontee di Pavia e Pandino compare un Compianto di Avignone dove acqua, barche e una città fanno da sfondo alla pacata Madonna con bambino Santa Caterina da Siena e un certosino nella pinacoteca di Brera. Strade, cittadini, piazze su cui si affacciano facciate monumentali trovano spazio nelle tavolette della predella della pala Sant’Ambrogio della Certosa, oggi divisa tra Accademia di Carrara di Bergamo e la galleria sabauda di Torino. Passeggiando sul naviglio Martesana e sul Pavese che ancora si può immaginare Milano come città dell’acqua. Questi due canali hanno, infatti, parzialmente mantenuto l’autenticità del passato, nonostante siano praticamente scomparsi.
Il Naviglio Martesana
Il naviglio Martesana corre parallelo a via Padova, la strada che ha tagliato l’esteso contado di Crescenzago in maniera netta. Il luogo ameno era scelto dai patrizi milanesi per costruire le proprie ville di delizia, ossia le seconde case di villeggiatura, dove trascorrere le vacanze, tra ogni tipo di delizia, piacere, appunto, musicale, teatrale, artistico. Le ville sono veri e propri tesori architettonici. Nel tratto milanese del naviliett incontriamo edifici mozzafiato. Possiamo entrare sul Naviglio della Martesana alla chiusa all’altezza di via Melchiorre Gioia, dove subito si può ammirare la Cassina de’ Pomm. La cascina è la struttura agricola tipica della Pianura Padana lombarda e in parte piemontese ed emiliana. Le protagoniste di film come L’albero degli zoccoli o Novecento di Bernardo Bertolucci. La corte si può spiare dal bagno del bar la Martesana nascosto sotto il glicine lilla. La richiama più avanti la Cascina Quadri, di dimensioni decisamente più ridotte, ma anch’essa si affaccia gialla sulle acque dell’Adda.
Tracce della Martesana interrata negli anni Venti del secolo scorso si trovano lungo via San Marco: ci sono il tombon de san Marc, piccola darsena usata come porto fluviale e luogo di molti suicidi, e la conca dell’Incoronata, detta anche conca delle gabelle, cioè le tasse indirette sugli scambi e consumi di merci e il trasporto delle persone,che qui si pagavano. È ritenuta opera di Leonardo, ma è certo che la chiusa fu inventata prima che il genio fiorentino giungesse a Milano, dove sicuramente studiò i flussi delle acque del capoluogo lombardo. Il 3 marzo 1928 la svolta del comune di Milano, che decise di interrare il fossato per scongiurare il «pericolo sociale per l’attrazione che esercita sui deboli e sui vinti di una grande metropoli». Nemmeno era arrivata l’autorizzazione del ministero dei Lavori pubblici che le opere di copertura iniziarono. Leonardo però progettò il ponte di fronte alla Cassina de Pomm, attraversato da Renzo nei Promessi Sposi che, per andare a Bergamo, il Naviglio della Martesana dovette attraversare. A ridosso di Cascina Quadri, dove oggi sorge l’attuale Cascina Martesana, un tempo c’era la prima piscina pubblica all’aperto El bagnin de Gorla. A Expo 1906 si legge: “[…]da quindici anni durante la stagione estiva viene delimitata una tratta del naviglio Martesana tra i bastioni e la circonvallazione con uno steccato di conveniente altezza; si erigono vasti baracconi per spogliatoio e custodia indumenti e così si costituisce in breve tempo e con limitato dispendio, uno stabilimento provvisorio con ampia vasca da nuoto, alimentato da acqua limpida e corrente, dove gli operai accedono numerosissimi con la tenue spesa di centesimi cinque”. Nel 1904 si contarono 50.000 persone, 30.000 nel 1905. Sulle acque,poi, si specchiano meravigliose ville di delizia a partire da Villa Lecchi del Settecento, abitazione in cui soggiornò anche Francesco I quando venne a visitare Milano nel 1816: arrivando troppo tardi per fare un’entrata trionfale in città, quindi decise di rinviare al giorno successivo, nel frattempo venne ospitato da Jacopo e Carla Lecchi nella loro abitazione, come viene ancora tramandato dalla lapide dello scalone. Nel corso dei secoli mutò più volte proprietari e funzioni. Nel XIX secolo l’abitazione si trasformò nella fabbrica di Enrico Mangili, industriale tessile e filantropo passato alla storia come l’inventore dei coriandoli. La sua mutazione è ancora scritta sul muro che mostra i segni della ruota che muoveva l’acqua per produrre energia. Oggi è conosciuta come Villa Pallavicini, un esempio di straordinaria mediazione culturale in cima alla melting pot via padova che la scorge nel suo ultimo tratto. Attraversando la strada in via Berna sorge Santa Maria la Rossa, la canonica del contado di Crescenzago.
Superato l’antico municipio di piazza Costantino, la vecchia cascina Monti introduce a Villa Albrighi, dal nome dei conti che acquistarono la residenza settecentesca nei primi anni del Novecento. Nel 2006, la villa fu oggetto di un importante progetto di recupero condotto dall’architetto Franco Mazzetti che cercò di mantenere integro il contesto architettonico iniziale e ha consentito la realizzazione di prestigiosi alloggi residenziali. All’esterno presenta una ricercata decorazione con disegni in cotto ed all’interno soffitti a cassettoni ed affreschi. Richiamati dalla villa che poco più avanti la segue: Villa Petrovic, con Villa Pino protagonista del quadro di Domenico Aspari, dipinto nel 1790 circa e conservato al museo di Milano in via sant’Andrea 6. Con le altre due residenze che si susseguono dopo Villa Albrighi, giungiamo probabilmente agli inizi del Novecento. La Martesana può essere risalita fino a Trezzo d’Adda a scoprire ancora residenze meravigliose. Qui, a Crespi d’Adda, il Villaggio Crespi sintetizza le due nature degli edifici del tratto milanese: quello residenziale settecentesco e industriale novecentesco. Si tratta di un villaggio operaio, dove ognuno possedeva la propria villetta neoclassica con orto erette tutte intorno, alla fabbrica e ai luoghi pubblici destinati dal padrone illuminato alla forza lavoro, tracciando una griglia di cardi e decumani. Illuminato non proprio, un po’ sbiadito più sicuramente perché al cimitero, che chiude il paese, ogni operaio morto è ricordato da una croce in pietra, sotto un mausoleo piramidale che custodisce il padrone a eterna memoria che anche dopo la morte non siamo tutti uguali.
Oggi il naviglio della Martesana ha aperto la biblioteca cinefila Morando, e diversi locali all’aperto. All’anfiteatro si programmano spettacoli, e rappresentazioni teatrali, anche per la curatela del Piccolo teatro, come le crew del quartiere che ballano coreografie divertenti. Nella vicina Roggia incantata, dentro la Cascina Martesana, che occupa El bagnin de Gorla, si fa yoga e meditazione. Quest’anima più mondana del Navilliet caratterizza il naviglio più conosciuto: il Naviglio Grande, vero e proprio centro della Milano da bere.
Il Naviglio Grande
Ma in passato quartiere operaio, di cui resta traccia nel Vico dei lavandai con sedute per le donne al lavoro e rivi centrifughi. Gianni Maimeri, che più del Bergognone si concentrò su questo canale, ha lasciato diverse opere che testimoniano l’uso del naviglio come sito di lavoro per le lavandaie. Un disegno di Carlo Paolo Agazzi Lavandaie alla Darsena mostra una giovane lavandaia seduta di fronte a un’altra accovacciata. Piccoline lavano con forza i panni incorniciate dalle acque maestose del Naviglio Grande. Più mature sono quelle a lavoro in Porta Ticinese e ritratte da Emilio Gola nel 1895. Ermo Zago moltiplica le Lavandaie all’opera chinandole tutte verso l’acqua. Tra il 13 e il 30 giugno del 1959, alla galleria Salvetti di via Broletto, la Mostra commemorativa del Naviglio dedicata a Gianni Maimeri espone un olio su tavola con due operaie a lavoro. Ma basterebbe alzare gli occhi al cielo del Planetario di Milano per rendersi conto che fino al Novecento il centro della città era sede per le fabbriche, che si alzano nel profilo d’alluminio, attorno alla sagoma del Duomo. Maimeri con i suoi notturni ci introduce anche alla attuale natura del naviglio Grande, polo di aggregazione grazie ai tanti locali che lo animano. Negli anni Trenta nei locali risuonava la musica dei grandi Schubert, Beethoven, Mozart, Bach “in ordine di comprensione”, specifica Raffaele De Grada. Il Naviglio Grande risale al primo secolo dell’anno Mille, quando il sistema di difesa cittadino poteva contare su mura, torri, porte e pusterle. Di interesse atistico sono le tre chiese che gli stanno accanto: Sant’Eustorgio, Santa Maria delle Grazie al Naviglio, che sorge sulla riva sinistra del tratto terminale del Naviglio Grande, a circa 300 metri dalla confluenza di quest’ultimo nella Darsena. La facciata a salienti non è finita, ma la struttura muraria a vista lascia immaginare chiaramente come doveva essere.
Più avanti, San Cristoforo sul Naviglio ha pianta doppia, in quanto costruita in tempi diversi la Chiesa a sinistra è originaria di età comunale, l’altra invece fu costruita agli inizi del Quattrocento per voto popolare, passata la peste, e venne nobilitata a cappella ducale da Gian Galeazzo Visconti.
Qui i barcaioli e i pellegrini facevano sosta di ringraziamento al santo protettore che era dipinto a quel tempo sulla facciata come una gigantografia, di cui oggi restano soltanto tracce di colore. Si faceva così nell’antichità: erano affrescati non soltanto gli interni, ma anche gli esterni. Ne rappresentano celebri testimonianze La nuda di Giorgione e La Giustizia del suo giovane allievo Tiziano, affreschi staccati dalla Fondaco de’ Tedeschi a Venezia, commissionati per il rifacimento dell’edificio duecentesco, dopo l’incendio del 1505 e nel XIX secolo staccati e musealizzati, tra la Ca’ d’Oro e la Galleria dell’Accademia. Le facciate degli edifici di prestigio, nel passato erano, infatti, affrescati, tuttavia sovraesposizione agli agenti climatici, umidità, l’aria salmastra in laguna e nei luoghi di mare, complice il tempo, li hanno cancellati. San Cristoforo è affrescato anche all’interno sulla parete laterale della cappella viscontiana. E tanti sono gli affreschi ancora visibili. Quelli dell’arco trionfale risalgono ai recenti restauri del 2016-2017. Rimosso il soffitto a cassettoni, si è riscoperto l’affresco dell’Annunciazione, realizzato da due grandi maestri. Quello che ha dipinto l’angelo e la Madonna è forse il maestro dei santi Cosma e Damiano, l’altro è l’autore del dio pantocratore e degli angeli nella cuspide. A quest’ultimo andrebbero attribuiti anche gli affreschi dell’abside, su cui molti sono intervenuti nel corso dei secoli. Sua anche la Maestà nella parete di sinistra, in precedenza attribuita alla scuola del Bergognone. Nell’intradosso ogivale corrono tondi con i mezzi busto degli apostoli. Attorno al Pantocratore i quattro Evangelisti con i loro attributi. Dal Naviglio Grande da un lato si passa al Naviglio Vallone, oggi completamente interrato di cui rimane memoria per Conca di Viarenna, sulla quale edicola campeggia un bassorilievo dedicato alla Madonna salvatrice con la facciata del vecchio Duomo e un’epigrafe celebrante Ludovico il Moro (in via Conca del Naviglio), costruita dalla Veneranda Fabbrica del Duomo tra il 1551 e il 1558 in sostituzione della precedente e omonima conca realizzata nel 1438, che venne demolita durante i lavori di costruzione delle mura spagnole di Milano.
Questo naviglio fu realizzato tra il 1438 e il 1439 per volere di Filippo Maria Visconti al fine di facilitare la costruzione del Duomo di Milano, che venne interamente ricoperto di marmo di Candoglia; era quindi attraversato, tra l’altro, anche dai barconi provenienti dal Lago Maggiore, dove si trovavano le cave di questo materiale da costruzione. Le imbarcazioni adibite a tali trasporti erano esenti dal pagare il dazio per il decreto “Ad Usum Fabricæ”. Le conche sono piccoli bacini regolati da due chiuse e costituivano un’invenzione geniale, risalente al primo Quattrocento.
Il Naviglio Pavese
Dall’altro lato del Naviglio Grande, si raggiunge il Naviglio Pavese. In questo paradiso agreste, si trova anche qui una Santa Maria la rossa, altrimenti nota come Santa Maria alla fonte, in quanto probabilmente nei suoi pressi era un fontanile, la quale chiesa, con l’ambiente rustico che le sta intorno, costituisce un punto di incontro tra antico e vecchio, sacro e agreste, che purtroppo per molti anni è stato lasciato deperire. Tuttavia, essendo chiamata anche basilica, doveva avere una certa importanza. Filiazione di una santa Maria in fonticulum, risalente al X secolo, la chiesetta faceva parte di un monastero dei benedettini poi agostiniani, soppresso nel 1782. Rappresentava, fra i campi, una confortante stazione di ristoro nell’ultimo tratto tra da Pavia e Milano. Tristano Sforza, figlio di Francesco, vi fece una sosta nel 1455 con la sposa Beatrice, sorella di Borso d’Este, quello di Palazzo Schifanoia a Ferrara – ovviamente via terra, in mancanza del Naviglio Pavese odierno e il 17 gennaio 1491 prenderà questa via per Milano anche la ben più celebre Beatrice, nipote della precedente sposa ancora illibata di Ludovico il Moro: “Hieri dapoi disnare venissimo da Pavia a Binasco dove alloggiassimo la notte e questa mattina che è venerdì fussimo tutti a chavallo, et per un terribilissimo et crudelissimo freddo se ne venissimo a Sancto Eustorgio”.
L’attuale chiesa sorge su un antico edificio absidato con pianta a croce libera considerato pre-cristiano le cui fondamenta sono venute alla luce dopo il restauro del 2000-2003. Il saccello è stato interpretato come una cella memoria sepolcrale tricora, unico e singolare esemplare in Milano che poteva essere collegato a una costruzione molto più grande come, ad esempio, ricca domus romana di cui effettivamente sono state trovate tracce nei ultimi restauri anche all’esterno della chiesa attuale. Questo saccello, dunque, può essere datato intorno al II secolo almeno nella parte più antica. Consente questa datazione anche un resto di pavimentazione musiva presente nell’abside, un raffinato mosaico geometrico in bianco e nero che viene appunto riconosciuto come un’opera romana d’epoca imperiale, cioè di fine II secolo. Un’altra pavimentazione a mosaico nel braccio occidentale del saccello, presenta notevoli differenze con quello romano dell’abside: è policromo, più grossolano, le tessere sono tagliate male, il fondo è più fragile. L’epoca longobarda cui si fa risalire dipende dal ritrovamento accanto di un pluteo di questa età per richiamare i plutei longobardi conservati a Monza e risalenti a V-VI secolo. Datazione che però trova tanti in disaccordo. Dopo che la chiesa attuale ampliò il nucleo originario, la chiesa subì una probabile distruzione o grave danneggiamento a opera di Federico Barbarossa nel 1162, durante l’assedio di Milano. Il naviglio pavese scorre per 33,5 km dalla darsena di Porta Ticinese fino a Pavia che accoglie i visitatori da lontano con la Certosa. Prezioso scrigno scultoreo per tesori dipinti. Torna il Bergognone che già dipingeva il work in progress dell’edificio dentro cui si può ammirare una Crocifissione impalata da Maddalena riccia e disperata, come la Madonna e i soffitti- cieli di preziosi lapislazzuli.
Il naviglio Grande si può lasciare percorrendo via Magolfa, dove sorge la casa di Alda Merini, che in queste zone viveva, e il cui volto campeggia in un murale, purtroppo spesso imbrattato da tag e più volte rifatto, e che evoca un ricordo della poetessa che sapeva guardare la zona dove abitava con occhi ancora fanciulleschi e immaginifici: “E’ bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla per sempre solo per andare in Paradiso. Ma forse desidererei, anche da lì, la mia casa”.