Sulla mia pelle. Gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi

Antonia si è rifiutata di vedere Sulla mia pelle – Gli ultimi 7 giorni di Stefano Cucchi perché temeva fosse troppo triste e ansiogeno. D’altronde la cronaca ci ha già raccontato bene la storia e anche quelle fotografie esibite dalla sorella Ilaria fanno ripercorrere a chiunque le abbia visto lo strazio di un’agonia tremenda. Il film è definito al Festival di Venezia, proprio da quest’ultima “ciò che dovevo a mio fratello”. Lei che è diventata l’icona della sorella e della combattente per un fratello e per la verità. Il regista Alessio Cremonini in merito non prende posizione. Non si espone, ma riporta le testimonianze così come giurate al processo. Ed è questa la “sigla” finale, ossia la vera voce di Stefanno Cucchi registrata al processo, quando Stefano è in tribunale con la pelle pulita della faccia di quello che si direbbe di un bravo ragazzo. Poi si chiude una porta e la pelle è stavolta maculata di ematomi dolorosi anche solo a vedersi, chissà quanto a portarli sulla pelle. Ma Stefano non fa la spia, come insegna la legge della strada, né nei confronti di chi gli ha venduto la droga né in quelli dei suoi carnefici. Che soltanto dopo che non riesce più a urinare, confessa essere stati i carabinieri della polizia penitenziaria. La cronaca di quei sette giorni è terribile perché emerge palese come Stefano sia un ragazzo del popolo, uno un po’ ribelle che risponde male e provocatoriamente alle guardie – anch’io le chiamo così, ma sono da chiamare “assistenti”, viene ammonito Cucchi da un altro galeotto, così come Lui mi ripete sempre di non chiamarle guardie- sottovalutando che potrebbe pagarla cara. È un ragazzo che sceglie, come tanti negli ultimi anni, il pugilato come pratica sportiva. È celibe e lavora come geometra con il padre, altrimenti, sarebbe probabilmente disoccupato, come la maggioranza dei trentenni. Ha una famiglia che si occupa di lui e gli compra casa, eppure non lascia mai definitivamente quella dei genitori. Così come le cattive abitudini che lo fanno ricadere nel vizio della droga denetuta, ma non spacciata, confessa il ragazzo al giudice. Con la droga detiene anche gli antiepilettici, questo figlio del diavolo, che i carabinieri gli negano. Soffre di denutrizione: al momento del decesso, Cucchi pesa solamente 27 chilogrammi, mentre prima di entrare in carcere, ne pesava 43, ma, nell’area detenuti dell’Ospedale Pertini di Roma, viene completamente abbandonato a se stesso. Poi c’è l’altra parte: quella delle guardie, degli assistenti, dei carabinieri, chiamateli come vi pare. Qualcuno scorbutico, uno tarchiato e minaccioso, qualcuno tenero, uno cerca di far confessare a Stefano cosa è successo, ma niente: non si fa la spia, o rischi di finire peggio. Io, quando vedo le foto che mostra la sorella, penso sempre alla definizione di macelleria messicana che dell’assalto alla scuola Diaz del g8 di Genova che diede il questore Fournier. Lo stesso vale per il personale infermieristico. Durante la detenzione, la verità di Cucchi incontra 147 persone, tra carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici, infermieri, barellieri, il pm, il giudice, e Stefano muore quando anche il vicino di cella lo lascia solo. Completamente solo, perché ai genitori viene negato l’accesso al Pertini. Aveva ragione mia mamma: è durissimo guardare questo ritratto della disumanità, ma ho ragione anch’io: il film va visto.

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