Pop up. Emergenza covid-19.La fotografia che aiuta
Quando mi hanno ricoverata una volta dietro l’altra tante che ne ho perso il conto, al punto che in ospedale, quando passo, tutti mi riconoscono e chiedono come sto. Da qualche anno non mi ricoverano più. E a ogni ricovero, la mia maggior paura era la perdita della vista che avrebbe significato che non potrei più vedere opere d’arte. Addio Piero della Francesca, addio Michelangelo, Leonardo, espressionisti. Chi mi conosce bene, sa quanto mi piaccia vedere arte e parlarne, fino a diventare insopportabile. E quando hanno proclamato la quarantena, ho subito pensato all’antica che per chissà quanto tempo non avrei potuto nutrire di bellezza i miei occhi e di bella musica le mie orecchie. Per fortuna così non è stato: ascolto molta più musica di prima, ho un fitto programma di dirette di concerti. Ma l’arte visiva mi manca proprio. È che vedere dal vivo un’opera d’arte non è come vederle appiattite sul computer e nella bidimensionalità. Però io non sono una che si abbatte facilmente e stamattina ho scoperto che l’arte può fare anche del bene in un momento di emergenza straordinaria come questo. Pop up. Emergenza covid-19.La fotografia che aiuta, l’arte più contemporanea della storia dell’umanità a riflettere su uno dei momenti più tragici che essa sta vivendo, attraverso l’opera di 80 fotografi italiani e stranieri per sostenere il Policlinico San Matteo di Pavia. Ne sono già state vendute 82, in 6 giorni. D’altronde, la metafisica desolazione della metropoli, in questi giorni di lockdown, me l’aveva già trasmessa in modo perturbante gli scatti della mia amica Donatella, che deve necessariamente recarsi in ufficio e ha fotografato una città affatto irreale che soltanto l’immaginazione, filtri, lirismo può trasformare in questo modo la frenetica Milano in un luogo altro, dolente, spettrale, mortificato dal lutto e dall’assenza. Come quella foto che mostra la colonna di mezzi dell’esercito fermi ad aspettare i corpi dei deceduti per Covid-19 in attesa di trasportare le bare fuori dall’ospedale di Bergamo.
Le tre foto, scattate con il telefonino mi hanno trasmesso tanta emozione e quella terrificante di Bergamo ancora di più e io credo che l’arte sia proprio questo: la capacità di emozionare.
La mostra pavese può contare pure su 80 fotografi italiani e stranieri. I fotografi che hanno aderito e condiviso sin dall’inizio le finalità del progetto provengono non solo dall’Oltrepò Pavese, molti dei quali hanno esposto durante l’ultima edizione di Voghera Fotografia, ma vengono da tutta Italia, ai quali si è aggiunto anche l’americano Harry De Zitter. Ci sono i ciechi turisti di Aldo Agnelli che arrancano in denso latte bianco.
tanta natura intatta e affatto incontaminata, come lo specchio di montagna disabitata sul lago di Carlo Meazza, per il quale l’uomo e i suoi artifici non esistono più in nessuna delle parti: quella che specchia e la riflessa. L’anatra bianca di Chantal Bega si scioglie al sole insieme con l’orizzonte.
Poche figure umane abitano la pellicola. C’è L’origine del mondo di Dario Bonazza che trasferisce concretezza al titolo dell’opera di Gustave Courbet, facendo albeggiare da un pube muliebre il pianeta. Davide Parentela mette a distanza tutto lil caloroso affetto tra Charlie Chaplin e il Monello, nel rispetto delle distanze sociali che vengono raccomandate da tanti dei fotografi in mostra. Come dalla sedotta e abbandonata, perché per legge ministeriale con il covid-19 non si fa l’amore di Fabio Salmoirago, della quale è rimasta soltanto la spinosa contorta e cifotica colonna vertebrale . O il musicista di Fabio Treves nascosto dietro barba da Babbo Natale e occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero davanti a un pubblico che non c’è. C’è contatto, invece, tra i due lottatori di Elide Cataldo. O meglio no, anche loro rientrano nella legalità perché non sono sagome, ma ombre: il vero contatto non può esserci. Fino alla coppia mista di sconosciuti che aspettano l’autobus, seduti sì l’uno accanto all’altro, ma ben divisi da due separatori in ferro massiccio. Il contatto è ancora più estremo nella fotografia di Flavio Tecchio dove un bambino si stringe fortisssimo alle gambe del papà come a gridare che no, l’affetto non ce lo potete togliere con un decreto ministeriale.
E ancora tanta architettura, perché quello che l’uomo ha costruito non può desertificarsi. E così nelle opere di Giovanna Matassoni, l’orizzonte è cementificato dai casermoni sbiaditi, a dispetto di quelli fauves di Lorenzo Callerio, e nel deserto asfaltato di Giuliano Giorgi. L’architettura dell’americano De Zitter guarda con cuor di leone il cielo tempestoso.
Potrei andare avanti per ore, perché le suggestioni che provocano in me certe opere sono infinite, ma l’elenco delle opere con i relativi autori è consultabile sul sito www.popupfotografia.it, creato da Pangea Grafica e Comunicazione, dove è possibile anche procedere alla donazione.
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