The lobster, ovvero della relazione fuori dagli schemi
A quarant’anni, un cancro recidivante e infinite ingiustizie professionali subite, non sopporti più le costrizioni.
Non sopporti le occasioni obbligate, le telefonate di auguri a Natale con i parenti, la zia che ti pizzica il seno chiedendoti se sei già diventata signorina, come da quando eri decenne – e ti fa una male cane perché signorina lo sei da un pezzo e il seno è linfonodico, non sopporti i sorrisi di circostanza….
A quarant’anni, un cancro recidivante non hai più voglia di dimostrare.
Sei quella che sei, le cose che hai fatto e quelle che ancora vuoi fare.
Se agli altri va bene, bene.
Altrimenti è così lo stesso.
A quarant’anni, un cancro recidivante, non importa se sei sposata, fidanzata e perché vi siete lasciati. Non importa se hai avuto figli.
Sarai comunque madre di te stessa.
Perché con gli anni avrai imparato a prenderti cura di un corpo che finalmente ami, nel suo divenire sempre più imperfetto e malato solo agli occhi degli altri.
Che chi se ne importa se ho la taglia sbagliata e se sono yo-yo – la zia, quella che ancora mi dà il pizzicotto al seno per vedere se è cresciuto, ogni volta che mi rivede dopo tanto tempo, mi pesa con gli occhi. Pesa tutti lei, è ossessionata dalla grassezza come dalla magrezza, tanto la zia è convinta che facciamo tutti schifo, eccetto lei, i suoi figli e il nipote che si vanta di non fare né aver fatto niente nella vita.
La scrittrice Irene Renei, cui mi sono ispirata in questa introduzione, il cui pensiero credo appartenga un po’ a tutti coloro che hanno sviluppato un senso critico per i pregiudizi sociali, continua scrivendo:
“A 50 anni… L’importante è che la schiena non scricchioli troppo quando ti alzi, che toccandoti il seno non si sentano palline e che le mestruazioni finalmente diventino un problema degli altri.
A cinquant’anni hai voglia di libertà.
Libera di dire di no, libera di stare in pigiama tutta la domenica, libera di sentirti bella per te e non per gli altri.
Libera di camminare da sola: chi ti ama starà al tuo passo, degli altri chi se ne frega.
Libera di dire di no, libera di stare in pigiama tutta la domenica, libera di sentirti bella per te e non per gli altri.
Libera di camminare da sola: chi ti ama starà al tuo passo, degli altri chi se ne frega.
Sei libera di cantare a squarciagola in auto anche se al semaforo ti guardano male. Non avrai più registri di classe da controllare né chat di mamme da sopportare. Avrai sogni come a vent’anni e chiederai tempo ad ogni dio per realizzarne ancora.
Ti sarai spogliata per gli uomini che hai amato e delle insicurezze che ti facevano tremare.
E ora, proprio ora che metà vita l’hai mangiata a bocconi grandi e di fretta, troverai la voglia di assaggiare piano tutto lo zucchero e il sale dei giorni davanti a te”.
Ieri sera ho rivisto The lobster, scritto e diretto da Yorgos Lanthimos, che ritengo uno dei migliori registi contemporanei per la sua cifra surrealista – che, secondo me, altro non è che l’unica vera realtà del mondo di oggi – eppure sempre comprensibile anche grazie a una fotografia nitida e senza virtuosismi inutili.
Rivedendolo mi è subito venuto in mente il pensiero di Renei, che mi pare la miglior lettura del film del regista greco che si avvale per la seconda volta della iperreale apatia dell’efficace inespressivo Colin Farrell, David nella finzione, un uomo “colpevole” di essere rimasto single dopo che la moglie lo ha lasciato. Colpevole perché nella surrealtà dei pregiudizi sociali non è possibile rimanere dei “solitari” se non per essere prede dei cacciatori di un hotel in cui i single sono costretti a trovare, entro quarantacinque giorni, un compagno o una compagna con cui fare coppia. Se falliscono vengono trasformate in un animale a loro scelta. David inizialmente sta nell’hotel con suo fratello Bob, che è stato trasformato in un cane border collie. All’iscrizione sceglie, in caso di falimento, di mutare in aragosta – che sarebbe immortale – ma, gli faranno notare, non se viene pescata e mangiata. Per non incorrere nella trasformazione finge di innamorarsi della Donna senza cuore, condividendo con lei l’assoluta assenza di sentimenti, la condivisione di tratti caratterizzanti è necessaria nell’albergo per essere una coppia. David inizia così la sua ricerca, fino al giorno in cui ha l’occasione di scappare nella foresta – dove pure vigono norme e restrizioni estreme, come non stringere relazioni amorose – e diventare un solitario. Per poco perché si innamora, nonostante le leggi dei solitari lo vietino, pena occhio per occhio.
Tutte le recensioni che ho letto ambientano il film in un futuro – e vuoi che non ci mettano accanto l’aggettivo «distopico», che fa tanto figo? – invece io lo vedo incentrato nel presente perché al giorno d’oggi, proprio come nel film, essere single è visto a stregua di un atto criminale. Così come è ai limiti della legalità essere al di fuori degli schemi borghesi.
Meglio essere tutti legati a un partner che lo si ami o no non è importante. Nessuno ha il coraggio di essere sé stesso; quasi tutti i personaggi sono schiavi di condizionamenti sociali limitanti, che impediscono loro di stabilire una connessione autentica con l’altro. Persino la coppia che ha ben due aspetti in comune, la claudicazione e l’epistassi (che l’uomo, pur di non trasformarsi, si auto provoca), è in crisi al punto che gli albergatori hanno loro dato una figlia che “in certi casi aiuta”. È meglio reincarnarsi in un’animale o fare la vita da reietti, piuttosto che negare la complessità delle emozioni umane dipendere da un qualcuno che non ci rispecchia.
Mettere in atto comportamenti innaturali per ricercare approvazione dagli altri, sembra una normalità. Questo è tipico all’interno di una società che trascura i bisogni reali dell’individui, che li rende passivi reprimendo le loro facoltà e li omologa a un ruolo molto definito dalla morale o dall’etica.
Per stare insieme non c’è bisogno di amore, né di romanticismo, o di reali affinità elettive, anche il sesso non deve essere consumato fino all’orgasmo, ma soltanto provocato da chicchessia.