Buone visioni con de Chirico al Palazzo Reale di Milano
L’autunno è la stagione di Giorgio de Chirico, perché dietro l’uggia nebbiosa che scurisce il cielo si può celare una nuova realtà misteriosamente meravigliosa. Lo mette in chiaro la mostra De Chirico, a Palazzo Reale di Milano dal 25 settembre 2019 al 19 gennaio 2020.
Si veda Ottobrata, dedicata al mese che spegne piano piano il sole e inaugura i mesi freddi, e dietro le cui pennellate, delle quali si può perfettamente seguire il corso, come se il pittore le stendesse sotto i nostri occhi, mette insieme elementi tra loro non collimanti: cavalieri rinascimentali, raffaellesche figure e, nel cielo uggioso, una
creatura in volo. E la visione di un satiro con la barba ritta e le braccia forti che si stringono nei pugni sui fianchi, in postura marziale-mussoliniana, con il contorno frantumato da quelle pennellate ben visibili. È uno dei quadri dedicati alla pittura di genere, che insieme con paesaggi con ville, che spuntano tra vapori, colori e accostamenti, talora bizzarri. C’è anche l’azzurrissima (per i colori troppo saturi) veduta di Venezia, per il pittore e il suo alter ego Ebdòmero, città dalla valenza decadente per i richiami mortiferi, come i burchielli allungati, che paiono gondole che attraversano il canal Grande. Ancora più visionari sono i paesaggi metafisici: la grande piazza vuota su Le rive della Tessaglia, dove giganteggiano un cavallo bianco con la criniera nera e un cavaliere mitologico nudo: il cavallo è il mitologico Pegaso o un’allusione al nietzschiano, abbracciato al quale il filosofo impazzì? E quel cavaliere è svestito forse perché è una statua? È ancora più onirico il paesaggio nascosto dietro l’alto muro che si scorge dietro l’Arianna del Metropolitan – che cita nella sua posa sdraindola l’Endimione dormiente di età classica. Ricordo che il pictor optimus ha origini greche e non è italiano, come riporta erroneamente Wikipedia. Sopra il muro stanno per schiantarsi contro une torre cilindrica larga e alta un treno a vapore, in arrivo sui binari a sinistra sopra il muro, e un veliero che naviga lento sulla destra anch’esso a un nodo nautico dalla torre. La mostra si apre però con l’altro grande soggetto della pittura di genere: il ritratto dal pittore greco declinato specialmente nell’autoritratto. Un’operazione sicuramente narcisistica, se si pensa all’alta incidenza sul corpus dechirichiano, ma anche un utile esercizio pittorico perché come spiega lo stesso ritrattista: l’autoritratto è un esercizio pittorico su un soggetto molto prossimo perché “l’uomo conosce meglio di ogni altra cosa il proprio corpo che gli è più vicino e più caro”. In quello del Metropolitan, l’occhio è reso con un forellino della tela. La mostra richiede una vera e propria caccia alla visione e allo sbaglio in quanto De Chirico non è mai didascalico, ma è borderline: c’è sempre uno sbaglio, una mano mal fatta, teste classiche sbilenche, intrusi, nuvole che magicamente mozzano le teste, citazioni, come l’autografo di sangue – già in Caravaggio – ne La lotta tra centauri. E con un rimbalzo di rimandi omaggia Piero della Francesca da cui tutto viene. Avviene nell’Orfeo trovatore stanco, sul cui fondale si staglia in trasparenza, dietro a un cielo coperto, il castello di Urbino, a memoria dell’Umbria e dei suoi maestri. La riduzione a pure forme geometriche, come insegnò Della Francesca è spudorata nel Figliol prodigo, dove l’ovale del volto del figlio è visibilmente squadrato, mentre il padre-statua scende dalla colonnastilo, che lo eleva moralmente sul figlio, per riceve l’abbraccio. Tanti altri li circondano. Su tutti Ettore e Andromaca sono colti nel loro ultimo saluto alle porte Scee, così come racconta Omero nel VI canto dell’Iliade.
L’influenza dei manichini dechirichiani sull’arte europea è stata molto importante: basti pensare alla pittura di Salvador Dalì, in cui questo soggetto viene ripreso spesso, al punto che de Chirico, nelle Memorie commenta “[I surrelisti] cominciarono a batter la grancassa intorno ai quadri di quel malinconico pseudo pittore che risponde al nome di Salvator Dalì, e che dopo aver scimmiottato Picasso si era messo a scimmiottare i miei quadri metafisici nei quali però non capiva nulla, e certamente non potrebbe capirci nulla un uomo come lui”.
Ma de Chirico vince nel loro campo sia i surrealisti che Pablo Picasso, l’altro grande pittore del Secolo breve. A parte I bagni misteriosi, fatti di acque pungenti e marroni, non sono magnificamente surrelistiche tele come lo Spettacolo misterioso? Opera in cui sul parquet di una terrazza vista mare, fatto di onde-piramidi lignee ben fermate da chiodini, giacciono i due astri, luminosi, grazie ai fili elettrici che accendono quelli sopra il gradino, mentre restano spenti gli speculari, ma ridimensionati al di sotto. La differenza con Pablo Picasso è ben spiegata dal curatore della mostra Luca Massimo Barbero: “il pittore spagnolo non esce dalla realtà, la ridipinge, mentre de Chirico lavora con le visioni e, quindi, bisogna guardare tutto con massima attenzione: bisogna trovare l’errore, indagare da capo questa pittura magica”. Questa è la chiave per vedere un de Chirico fin troppo conosciuto e riconosciuto con occhi attenti che ne daranno una interpretazione del tutto nuova.
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