L’automatismo e le crisi epilettiche

Yves Tanguy I paralleli, 1929 olio su tela, 92.2 x 73 cm Philadelphia Museum of Art, Collezione Louise e Walter Arensberg, 1950

Detesto prendere i mezzi pubblici, ma essendo una ritardataria cronica, capita che debba rinunciare a muovermi a piedi, e mi tocchi salirci. Tuttavia posso tranquillamente muovermi a piedi per decine di chilometri. Ma mercoledì, in ritardo a un appuntamento di lavoro, non ho proprio potuto fare a meno di prendere la metro rossa. Salgo e mi siedo perché detesto essere spiaccicata tra la gente e sballottata per i vagoni. Sento accanto a me un tonfo fortissimo: un ragazzone è faccia a terra accanto a me. Piange, urla e scuote convulsamente il corpo. In tanti accorrono, cerco di tirare la leva di emergenza, ma non ci riesco (no, non sono bassa!). Un ragazzo si sveglia dal torpore che sembra calato su tutti i presenti, ad eccezione – purtroppo – di un anziano che strilla che il caduto è ubriaco. Sempre ben pensanti e poi, anche se lo fosse stato, non meriterebbe aiuto, visto che è caduto e ha palesemente battuto la testa? Sembra che nessuno o quasi arrivi a questa considerazione. Il ragazzo seduto di fronte a me, in un barlume di illuminazione, chiama il 118 per avere informazioni sul da farsi, è in dubbio perché io ho girato la leva d’emergenza e, quindi, forse sono già stati avvisati. Meglio chiedere soccorso due volte che nemmeno una, gli dico. E allora al telefono spiega che un ragazzo è svenuto. Lo correggo e dico che ha le convulsioni, probabilmente è epilettico. Consiglio di non muoverlo, e far sfogare la crisi, mi dicono di mettergli qualcosa in bocca  per non fargli mordere la lingua. Mi sono informata perché a me le crisi epilettiche fanno paura, quindi so come reagire. È terribile osservarsi da fuori di sé, vedere come si sta male, come il corpo si muove completamente fuori controllo, gli occhi che perdono conoscenza. No, non è necessario, meglio non toccarlo se poi ha sbattuto la testa è meglio si occupino di lui dei professionisti. Lo chiama il padre e conferma che il figlio soffre di crisi epilettiche e, dopo un quarto d’ora, arrivano lui e quelli dell’atm che lo conducono fuori e sdraiano su una panchina. Sul vagone tutti diventano improvvisamente epilettologi e il migliore è quello che ha chiamato l’ambulanza che dice convinto al suo vicino “Altro che ambulanza, avremmo dovuto chiamare l’esorcista: ho letto da qualche parte che è l’epilessia è la malattia dei bambini indemoniati”. Il vicino gli ricorda che anche io ho detto di soffrire di quella malattia e gli dice di stare zitto perché li sto guardando. Gli rispondo di non preoccuparsi che non mi possiede né il demonio, tanto meno dio. Arriva la mia fermata e scendo a Duomo e inizio a correre come una gazzella per raggiungere palazzo Reale. Sono in ritardo, nemmeno eccessivo rispetto ai miei standard. Devo vedere la mostra Impressionismo e Avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art. Bellissima. Mi soffermo alla fine sui surrealisti: c’è esposto il Simbolo agnostico di Salvador Dalí che rappresenta una delle sue tipiche metamorfosi, quella da duro a molle.

Salvador Dalí Simbolo agnostico, 1932 olio su tela, 54 x 65.2 cm Philadelphia Museum of Art, Collezione Louise e Walter Arensberg, 1950

Salvador Dalí
Simbolo agnostico, 1932
olio su tela, 54 x 65.2 cm
Philadelphia Museum of Art, Collezione Louise e
Walter Arensberg, 1950

Qui a sciogliersi e ad allungarsi è un cucchiaino che si piega contro uno scoglio per deformarsi e spalmarsi contro una parete su cui pare dipinta la schiuma marina, muro con cui si fonde. Il cucchiaino porta un granello di quello che sembra un occhio. Disorienta il quadro di Dalí, e ancora di più I paralleli di Yves Tanguy. Non si capisce se siamo di fronte a un paesaggio acquatico o terrestre, ma si vede un deserto sul cui orizzonte si solleva una nube di sabbia vorticosamente condotta dentro un comignolo. La tempesta di sabbia ha striato il cielo azzurro di nubi bianche parallele e fa rotolare sul terreno rose del deserto spinate e per la forza del vento dietro fluttuano in volo. Tanguy era un pittore autodidatta che aderì a un surrealismo che non parte dalla realtà, ma se ne discosta totalmente per scegliere i meccanismi dell’automatismo, ossia della sospensione della ragione e dell’autocontrollo per consentire il libero flusso delle immagini del subreale. E mi torna in mente il ragazzone con la crisi epilettica, perché gli automatismi la favoriscono. Per questo dopo una crisi epilettica per un anno la legge vieta di guidare.

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